Valutazione Danno Sanitario, la salute è sempre a rischio
TARANTO – La prima relazione sulla Valutazione del Danno Sanitario redatta congiuntamente dall’Agenzia Regionale dei Servizi Sanitari (AReS), da ARPA Puglia e ASL Taranto, che la legge regionale prevede sia prodotta almeno con cadenza annuale, oltre a basarsi sul registro tumori regionale e mappe epidemiologiche sulle principali malattie a carattere ambientale, inglobò anche i dati del registro tumori di Taranto (valido per gli anni 2006-07-08) e quelli dello studio Sentieri (dal 2003 al 2009) realizzato dal ministero della Salute e dall’Istituto Superiore della Sanità.
Presentata durante la riunione della V commissione regionale il 29 maggio 2013 e lunga ben 99 pagine, la conclusione della relazione della VdS (lo ricordiamo per l’ennesima volta) fu la seguente: “I miglioramenti delle prestazioni ambientali, conseguiti con la completa attuazione della nuova AIA (prevista per il 2016), comporteranno un dimezzamento del rischio cancerogeno nella popolazione residente intorno all’area industriale”. In realtà, quel documento fu scritto tra l’estate del 2012 e i primi mesi del 2013, sino ad oggi di “dimezzata” c’è stata soltanto l’attività produttiva dell’Ilva. Quando pubblicammo l’articolo in merito alla VdS il 30 maggio del 2013, per settimane la vicenda rimase sotterrata come al solito da strati di indifferenza totale (eccezion fatta per il sito inchiostroverde.it).
Per tirarla fuori, servì la relazione che l’ex commissario Ilva Enrico Bondi allegò ad una lettera del 29 giugno dello stesso anno, redatta da alcuni consulenti di vecchia data dell’Ilva Spa, che contestarono quella relazione addebitando i fenomeni di malattia e morte registrati a Taranto ai presunti “vizi” dei tarantini, un “classico” delle città portuali: tabacco e alcool. Attorno al caso si scatenò la solita infinita e futile polemica tutta tarantina, che si concluse nella solita bolla di sapone.
Secondo l’analisi della Vds redatta all’epoca, dopo l’applicazione dell’AIA, nel 2016 l’Ilva emetterà 22.1 g/anno di diossine, un quantitativo pari a circa la metà dell’intera produzione nazionale di questi inquinanti. Secondo le stime dell’Agenzia Regionale, tra il 2012 e il 2013 rischiava di avere un tumore, considerando la sola inalazione degli inquinanti, una popolazione di 22.500 residenti. Dopo la realizzazione di tutti gli interventi previsti dall’AIA, correranno questo rischio 12.000 residenti.
Il 26 luglio del 2013, il dott. Agostino Di Ciaula (ISDE, Medici per l’Ambiente) fu ascoltato dalla commissione Ambiente della Camera dei Deputati. Di Ciaula sottolineò come il calcolo espresso nella relazione sulla VdS, fosse “parziale” e il dato sul rischio “fortemente sottostimato”. L’analisi, infatti, prendeva in considerazione i rischi tumorali legati alla sola inalazione di sostanze inquinanti, escludendo le altre vie di assunzione delle sostanze tossiche emesse dall’Ilva per ingestione. Il rapporto, sostenne Di Ciaula, “calcola i rischi che quelle concentrazioni di inquinanti causano in soggetti adulti di peso medio. Non considera che a parità di concentrazioni il rischio è decine di volte più alto per i feti e per i bambini”.
Il 30 agosto del 2013, nel solito silenzio generale demmo notizia della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n.197 del 23 agosto 2013, del decreto del 24 aprile 2013 “Disposizioni volte a stabilire i criteri metodologici utili per la redazione del rapporto di valutazione del danno sanitario (VDS)”, a firma dell’ex ministro della Salute Renato Balduzzi e dell’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini. Il tutto, traeva spunto dalla legge “Norme a tutela della salute, dell’ambiente e del territorio sulle emissioni industriali inquinanti per le aree pugliesi già dichiarate ad elevato rischio ambientale”, approvata all’unanimità il 17 luglio 2012 dal consiglio regionale della Puglia. L’intento della legge era quello di “prevenire ed evitare un pericolo grave, immediato o differito, per la salute degli esseri viventi e per il territorio regionale”. Il regolamento della stessa fu approvato il 3 ottobre 2012.
Sei mesi dopo l’approvazione del decreto e a due dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ARPA e Regione presentarono ricorso al Tar del Lazio conto il decreto interministeriale. Un ricorso che andò perso. Ma di cui nessuno ha mai parlato o per il quale non vi è stata alcuna indignazione. Tre, fra le altre, le principali contestazioni che vennero mosse nei confronti del decreto Clini-Balduzzi. In primo luogo che anche ad AIA attuata, permarrà comunque un rischio cancerogeno per via inalatoria “residuo” nella popolazione; che una procedura basata sui dati misurati non può essere utile se non alla fine di tutti gli interventi AIA, ovvero ad agosto 2016, e considerando che “i dati consolidati per il 2016 non saranno disponibili prima del 2017 – rilevava l’Arpa -, ne deriva che il primo rapporto Vds Ilva non potrà essere disponibile prima di quattro anni”. Se invece si effettuasse la VdS “sui dati misurati attuali” si avrebbe, rilevava sempre l’Arpa, la “descrizione di un quadro sanitario compromesso e un esito del rapporto Vds rassicurante e comunque in nessun modo indicativo dell’efficacia delle prescrizioni AIA”.
Il ministero della Salute rigettò però sin da subito quest’impostazione, affermando che proprio l’analisi dei dati misurati permette di vedere cosa stanno determinando, in termini di impatto sulla popolazione, l’attuazione delle prescrizioni AIA nell’Ilva. Il tutto fu “documentato” il 9 dicembre 2013 con una nota di tre pagine firmata dal direttore generale del ministero della Salute, Giuseppe Ruocco (inviata anche al ministero dell’Ambiente, all’Istituto Superiore di Sanità e all’ASL di Taranto), in cui si contestava la valutazione di ARPA secondo cui effettuata oggi, la Valutazione del danno sanitario, “si avrebbe un quadro critico che poi diventa migliore ad AIA attuata. Considerando la latenza di alcune patologie – affermava Ruocco – un quadro sanitario compromesso è certamente in relazione con la contaminazione pregressa che lo ha generato, ma non necessariamente incompatibile con un ambiente ormai risanato”.
Già nell’agosto del 2013 entrammo nel merito del decreto interministeriale e ponemmo alcune domande rimaste del tutto inevase e che hanno finito per perdersi nel tempo. Perché, ad esempio, si scelse di separare l’epidemiologia dalla valutazione del rischio, visto che proprio l’epidemiologia è la disciplina utilizzata per la misura dello stesso? La separazione tra la valutazione di cosa è successo fino adesso e la previsione di cosa può succedere in futuro, è di fatto incomprensibile. Inoltre, il decreto prevedeva due procedure indipendenti senza prevedere che le stesse interagissero tra loro. Questo riepilogo si rende necessario e fondamentale non solo per tenere viva la memoria temporale sugli eventi. Ma anche e soprattutto per capire di cosa parliamo quando discutiamo di studi, inquinamento ambientale e rischio sanitario. Studi che evidenziano ancora oggi dei limiti, soprattutto per la carenza di strutture e/o per l’inerzia delle nostre istituzioni.
Oggi, abbiamo letto l’ultimo rapporto di Valutazione del Danno Sanitario redatto da ARPA Puglia e completato nel dicembre 2014. Nelle conclusioni finali del documento leggiamo che “la valutazione del rischio cancerogeno inalatorio delle emissioni in atmosfera per lo scenario 2016, per gli stabilimenti ILVA ed ENI, nell’area di Taranto – si legge nella relazione – evidenzia un numero di circa 14.000 persone residenti a Taranto per le quali, ipotizzando un’esposizione costante alle concentrazioni modellizzate per 70 anni, la probabilità aggiuntiva di sviluppare un tumore nell’arco dell’intera vita è superiore a 1:10.000”. Siamo dunque passati dalle 12mila alle 14mila persone esposte a rischio cancerogeno in un solo anno. Il perché viene spiegato nella relazione: “Si registra, così, un lieve incremento del numero di persone esposte ad un rischio cancerogeno inalatorio maggiore di 1:10.000, rispetto a quello riportato nel precedente report, relativo alla sola Ilva; tale incremento è legato, però, quasi esclusivamente all’introduzione delle emissioni di origine portuale, mentre il contributo di Eni (con e senza la realizzazione del progetto “Tempa Rossa”) all’estensione della fascia “critica” non risulta di particolare rilievo”.
Per quanto riguarda “il rischio non cancerogeno per via inalatoria, invece, il contributo aggiuntivo di Eni porta ad evidenziare una zona di criticità legata fondamentalmente alle emissioni di H2S ed accentrata intorno alla Raffineria; data la bassa popolazione residente nell’area, la popolazione di Taranto esposta a rischio non cancerogeno per via inalatoria si assomma a 17 persone”. Parliamo, si badi bene, di rischio “non cancerogeno”. “Risulta, perciò, confermata la criticità dell’area di Taranto di cui agli artt. 3, 4 e 5 della legge regionale 21/2012, con le previste conseguenze normative a carico delle aziende che si trovano nell’area suddetta, oltre che dei nuovi, possibili insediamenti e delle connesse procedure autorizzative” conclude la sua relazione. Che affronta in maniera dettagliata anche le vicende legate all’Eni che affronteremo una volta rientrati dalla breve sosta imposta dalle vacanze pasquali.
Vorremmo infine concludere con il ribadire un concetto già espresso più volte su queste colonne. Come spiega oramai sin troppo bene la letteratura scientifica, senza una buona epidemiologia non ci può essere una valida misura del rischio, e viceversa senza quest’ultima sarà difficile se non impossibile la gestione del rischio stesso. Inoltre, in merito all’esposizione degli inquinanti, a fronte dell’approccio valutativo per singolo inquinante, la letteratura scientifica negli ultimi hanno ha spostato un approccio basato sulla misurazione della dose interna assorbita di più inquinanti. La possibilità di esaminare l’impatto sanitario di una singola sostanza, viene infatti erroneamente anche nel decreto Balduzzi-Clini vincolata al superamento o meno dei valori di riferimento di legge. In altre parole, se la sostanza tossica in questione non supera, sulla base dei dati ambientali disponibili, i valori stabiliti per legge la valutazione non viene eseguita.
Il risultato è evidentemente una sottostima del rischio sanitario: perché da una parte “i valori di riferimento per le sostanze tossiche sono in continua rivalutazione, dall’altra l’esposizione di quote grandi di popolazione a livelli anche molto bassi può comportare effetti sanitari importanti, e, in aggiunta, gruppi più suscettibili possono essere vulnerabili a livelli anche molto inferiori alle soglie”. Inoltre non possono essere trascurati gli effetti sinergici tra varie sostanze. Dunque, la “censura” significa ignorare tali possibili impatti. La separazione non è quindi scientificamente giustificata. Né è chiaro cosa accadrebbe in caso di esito negativo per la salute della popolazione. Per dirlo in maniera ancora più chiara e semplice: nessun inquinante emesso dall’Ilva, dall’Eni e dalle altre industrie e discariche presenti sul territorio, ha un valore soglia al di sotto del quale possa ritenersi sicuro per la salute umana. Passate delle buone vacanze se potete.
Gianmario Leone