Mar Grande, ancora veleni – Missione agli scarichi Ilva con Bonelli
Taranto vista dal mare, se possibile, è ancora più bella. L’abbiamo ammirata a bordo della “Lady Luna”, imbarcazione utilizzata nella mattinata di ieri da Verdi, Peacelink e Fondo Antidiossina Onlus Taranto, per portare a termine una nuova azione dimostrativa tesa a dimostrare il profondo inquinamento in cui versano i fondali di Mar Grande, nello specchio d’acqua antistante gli scarichi a mare dell’Ilva di Taranto. Dopo le iniziative degli scorsi giorni dunque, anche Angelo Bonelli, candidato sindaco dell’area ecologista nonché neo consigliere comunale del Comune ionico, è voluto andare di persona a verificare quando denunciato da Fabio Matacchiera (Fondo Antidiossina), che martedì mattina ha presentato anche un esposto in Questura sulla vicenda affinché la Procura di Taranto si interessi e indaghi su quanto fotografato e filmato.
Anche ieri mattina, dunque, la missione ambientalista ha registrato l’ennesimo prelievo di acqua non proprio cristallina dai fondali di Mar Grande: ma pur avendo assistito in prima persona all’evento, continuiamo a restare fortemente dubbiosi sui metodi utilizzati e sul reale peso che un’iniziativa del genere possa avere nella questione ambientale a Taranto. Così come vorremmo essere presenti al momento della consegna del barattolo contenente il liquido prelevato ieri, da parte di Angelo Bonelli al Ministro dell’Ambiente, Corrado Clini. Perché qui nessuno mette in dubbio l’inquinamento dei sedimenti marini di Mar Grande. Né che esso sia dovuto alle attività industriali presenti in loco da decenni. Qui il problema è di altra natura. O, se meglio preferite, di metodo. E quindi, conseguentemente, di credibilità.
Partiamo dai dati. Non staremo qui per l’ennesima volta a sciorinare i numeri dello studio su “Inquinanti prioritari nel Mar Piccolo e nel golfo di Taranto: analisi di rischio”, presentato nel 2008 da CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e IAMC (l’Istituto per l’Ambiente Marino Costiero di Taranto), che riporta i dati della caratterizzazione attuata ai fini della individuazione degli opportuni interventi di messa in sicurezza e bonifica. Né che l’intera area in questione sia inserita nel SIN (Sito di Interesse Nazionale) di Taranto, cosi come definito dal Programma Nazionale di Bonifica e di Ripristino Ambientale (D.M. 18 settembre 2001 n. 468), dal lontano 1988.
Nell’area ad Ovest di Punta Rondinella, i sedimenti caratterizzati in questa area hanno evidenziato negli anni più di una criticità, risultando contaminati da rilevanti concentrazioni di IPA e Idrocarburi (pesanti e totali), soprattutto tra il Molo V ed il primo scarico ILVA e nella parte interna della Darsena Polisettoriale. Anche i metalli pesanti quali mercurio, rame ed arsenico, nonché piombo, cadmio e zinco, hanno sovente superato i valori di intervento e quelli tabellari normati. La contaminazione è anche attribuibile a composti organici quali pesticidi organo clorurati e composti organostannici. Tutte le informazioni sulla diffusa contaminazione evidenziata con la caratterizzazione conferma tutte le informazioni già acquisite dal CNR-ISMAR di Taranto e dalla ASL di Taranto negli anni ’90.
Inoltre che l’intera area in questione è preclusa alla pesca e a qualsiasi altra attività di raccolta e, allevamento; tutta la zona è inoltre inibita alla balneazione. Anche se ieri mattina, qualche ombrellone e qualche canna da pesca qui e là l’abbiamo notata. Così come le criticità ambientali di questa area marino costiera sono comunque note agli organi competenti ed all’ARPA Puglia che ha redatto diverse relazioni sull’argomento prodotte per la Procura di Taranto, di cui l’ultima inviata in data 31/01/2012 con n. prot. 5193. I dati ci sono: sono a conoscenza di enti ed istituzioni preposti al controllo e alla vigilanza. Nessun tarantino, crediamo, abbia mai pensato che in quella zona di mare vivessero i delfini.
Passiamo al metodo. Quello utilizzato anche ieri dagli ambientalisti, purtroppo, non è quello giusto. La tecnica di campionamento con retino a sacco, non è infatti quella corretta per la raccolta dei sedimenti, che deve essere effettuata con benna o carotiere. Utilizzando il retino a sacco si raccoglie solo una parte del materiale di fondo, e quindi, ammonisce l’ARPA, “i risultati analitici che deriveranno saranno viziati da tale procedura e dunque non confrontabili con altri”. Dunque perché perseverare con un metodo che non produrrà gli effetti sperati e che sarà facilmente confutato anche dalla stessa Ilva? Perché fornire alla proprietà del siderurgico un aiuto del genere? Perché utilizzare un metodo non scientifico che non darà dati scientificamente utili alla causa?
Concludiamo con i controlli. Perché i cittadini hanno il diritto di essere informati a 360°. Altrimenti si rischia di creare un ingiustificato allarmismo. Oltre che rischiare clamorosi autogol. E’ per questo motivo, e non per altri di chissà quale natura paventati da chi osteggia la nostra assoluta libertà di stampa e di pensiero, che continueremo a procedere soltanto attraverso atti e dati ufficiali. Molto semplicemente dunque, prima del rilascio dell’AIA, l’Ilva possedeva una determina provinciale, che prevedeva il controllo degli scarichi da parte di ARPA Puglia una volta al mese. Dall’entrata in vigore dell’autorizzazione integrata ambientale, l’Ilva è obbligata a procedere attraverso dei monitoraggi auto controllati, con l’ISPRA che procederà con un controllo annuale. Ciò detto, l’ARPA ha fatto sapere che “normalmente” l’Ilva rientra nei parametri previsti dalla legge, in termini di inquinanti riversati in Mar Grande dai propri scarichi.
L’ente regionale però, continua saltuariamente a controllare e monitorare la situazione a sue spese: il che, quanto meno, è una buona notizia. Ma l’AIA, purtroppo, prevede anche altro: ovvero che prima di arrivare allo scarico a mare, gli inquinanti incontrano grandi quantità di acque di raffreddamento o di lavaggio (sia acqua dolce sia acqua di mare) che vengono prima prelevate dall’Ilva e poi scaricate in mare: questa massa di acqua va a diluire gli inquinanti pericolosi che allo sbocco dei due canali presentano in tal modo concentrazioni così esigue che gli stessi strumenti di laboratorio hanno difficoltà a rilevare.
Solo dopo la diluizione, infatti, l’AIA prevede limiti da rispettare. Mentre le prime versioni dell’AIA prevedevano il controllo e i limiti prima della diluizione. Ora prima della diluizione i controlli valgono solo come “parametri conoscitivi” e non più come limiti. E’ questo, e non il colore dell’acqua o quello che si pesca con un retino, il vero scandalo. Ecco perché la battaglia sull’AIA condotta all’epoca dagli ambientalisti, andava fatta coinvolgendo un’intera città e non privatamente a braccetto con la politica che poi, ovviamente, ha scelto la strada più agevole per l’Ilva e i suoi interessi.
Gianmario Leone (dal TarantoOggi del 29 giugno 2012)