Ferriera di Trieste: la battaglia per la chiusura dell’Area a Caldo e la riconversione
Mille chilometri di distanza e due storie quasi sovrapponibili. Taranto e Trieste non sono così lontane quando si parla di ferite profonde legate ad un inquinamento industriale privo del minimo rispetto per l’ambiente e la salute degli esseri umani.
A narrare la vicenda della fabbrica di Sèrvola nel libro “Cercando l’oro. Trieste e la sua Ferriera” (Aviani e Aviani editori) sono Barbara Belluzzo e Andrea Rodriguez, attivisti del Comitato 5 Dicembre – Giustizia Salute Lavoro. Un racconto a due voci che fa comprendere quanto sia difficile intraprendere la lotta contro i veleni in realtà e comunità spesso divise.
A far da sfondo problemi già noti a chi combatte da decenni contro le emissioni inquinanti dell’ex Ilva, nella città di Taranto: il confronto con istituzioni che non sanno cogliere l’urgenza di scelte radicali a tutela della collettività; comitati e associazioni a volte in contrapposizione pur avendo finalità simili; impegni e promesse elettoriali disattese da politici inadeguati o spietatamente opportunisti.
Il tutto vissuto tra cenni di entusiamo e cocenti delusioni, in un’altalena di emozioni che mette a dura prova anche la resistenza dei più appassionati attivisti. Ed è proprio il lato umano della lotta ambientalista (per la chiusura dell’Area a Caldo della Ferriera) ad animare questo libro che non è solo il racconto di una lunga storia nata nel 1896, quando fu avviata la costruzione della Ferriera.
“La scelta cadde su Trieste che, dopo un decennio di crisi economica, offriva garanzie di potenzialità commerciale e di sviluppo tecnologico – si legge – grazie soprattutto ai vantaggi economici derivanti dai nuovi provvedimenti legislativi attuati dal governo austro-ungarico”.
Da allora si sono susseguiti diversi cambi di proprietà e si sono alternati periodi di crescita e di ridimensionamento delle attività. Gli sviluppi più recenti sono contenuti nelle prime pagine del libro: il 5 settembre 2019 il quotidiano triestino Il Piccolo ha pubblicato una lettera del Cavalier Giovanni Arvedi, presidente dell’omonimo gruppo che dal 2014 possiede la Ferriera, rivolta alla città, in cui sia annuncia che la produzione dell’Area a Caldo “dovrà fermarsi nel più breve tempo possibile”.
Si è quindi vicini all’epilogo auspicato dal Comitato 5 Dicembre? I segnali sembrano incoraggianti anche se la parola fine a questa travagliata storia non è stata ancora scritta. Nell’attesa di questo momento storico, Belluzzo e Rodriguez ricostruiscono le tappe del percorso che li ha visti tra i protagonisti di una battaglia piuttosto impegnativa.
Il nemico era ed è ancora oggi l’Area a Caldo, un mostro che inchioda da anni la provincia di Trieste in cima alle classifiche nazionali per il tasso di incidenza delle malattie tumorali al polmone. Come Taranto ed altre città ferocemente industrializzate, divenute vittime sacrificali di scelte economiche mirate esclusivamente al profitto.
Tra i periodi più critici risultano quelli relativi al passaggio della Ferriera al gruppo Lucchini, nel 1995. “Gli effetti più evidenti si hanno nell’aumento dell’impatto ambientale, al punto tale da favorire la nascita di organizzazioni spontanee di cittadini, prevalentemente nel rione di Sèrvola e in parte ex operai o familiari di operai dello stabilimento stesso, che premono nei confronti della magistratura per ottenere una messa in sicurezza dell’impianto, se non addirittura per una sua rapida chiusura”.
Nel 2015, parte l’iniziativa del Comitato 5 Dicembre, con l’intento di dare risposte a domande del tipo “ma perché la gente non protesta?“. I tentativi compiuti fino ad allora (gruppo Facebook, striscioni alle finestre, raccolta firme) non sembravano aver inciso troppo sulla percezione del rischio da parte dell’intera comunità.
“Dieci anni di attività ininterrotta ma inefficace – spiega Barbara Belluzzo – portata avanti principalmente da due associazioni che si facevano la guerra con dichiarato orgoglio”.
E come accaduto in riva allo Jonio, anche nel caso di Trieste, Nadia Toffa – indimenticata e coraggiosa inviata de “Le Iene” – ha lasciato traccia con alcuni servizi sui danni ambientali e sanitari causati dalla Ferriera che hanno avuto il merito di sensibilizzare il triestino medio e il resto del Paese.
Ma di certo non potevano bastare le denunce lanciate via etere per liberare Trieste dalla morsa dell’Area a Caldo. Serviva anche una mobilitazione dal basso che vedesse i cittadini come autentici protagonisti. Da qui la decisione del Comitato di coinvolgere la popolazione in manifestazioni molto partecipate.
“Il Comitato era piccolo e informale, aperto a nuovi membri e a nuove collaborazioni ma soprattutto rappresentava una novità nel panorama triestino delle associazioni: puntava dritto alla lotta sul campo, quella fatta di adunanze e proteste, con una chiamata alle armi trasversale e anti-ideologica”, spiegano gli autori.
Dopo le manifestazioni, il Comitato è passato al dialogo con le istituzioni e alla collaborazione con l’Amministrazione comunale guidata dal sindaco Di Piazza (centro-destra), protagonista durante la campagna elettorale di una posizione pro chiusura dell’Area a Caldo.
“Era ovviamente un grande successo per noi essere riusciti ad entrare nel Palazzo per spronare, consigliare e controllare il Comune sul tema a noi caro“, ricordano Belluzzo e Rodriguez. Ma l’ottimismo inziale ha dovuto lasciare il posto alla delusione e all’amarezza. A proposito del comportamento di Di Piazza, gli autori parlano apertamente di “tradimento politico ma anche sociale e umano”.
Tutti i retroscena e i dettagli sono scritti in un libro che vi invitiamo a leggere per rivivere (con i dovuti distinguo) anche l’esperienza di cittadinanza attiva sperimentata a Taranto, con i suoi slanci di entusiamo e i suoi disincanti. Può essere un modo per rendere omaggio a chi ha il coraggio di metterci la faccia accettando anche il rischio di commettere errori pur di combattere una battaglia giusta. Solo il tempo ci dirà se a Trieste questa battaglia sarà davvero vinta. Intanto anche lì, a mille chilometri di distanza, gli operai “diventano un’ulteriore pedina nelle mani dell’industriale, da giocare sul tavolo delle trattative con le istituzioni”. Mentre la gente ancora muore e si ammala.