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Ex Ilva, si ricorrerà all’ennesima toppa

Italia Paese di poeti, santi e navigatori? Oppure di commissari tecnici? No, no! Siamo il Paese degli esperti in siderurgia e basta leggere i giornali di questi giorni e seguire i dibattiti in tv per rendersene conto.

Tutti i giornalisti (anche quelli che si occupano in genere solo di calcio), gli economisti, i politici, i sociologi, i sindacalisti, i preti, gli ingegneri, i maniscalchi, i dentisti e perfino i nullafacenti pensano di avere la soluzione giusta per risolvere il caso Mittal di Taranto.

E chiaramente, nel 99,9% dei casi la soluzione prevede la salvaguardia della continuità produttiva a tutti i costi. Mittal vuole andare via? Allora stendiamogli un tappeto rosso e baciamogli i piedi, cospargiamoci il capo di cenere e recitiamo un mea culpa per avergli rovinato il business di Taranto.

Ripristiniamo quindi l’immunità penale, azzeriamo il canone di affitto e accettiamo tagli di personale: facciamo cioè tutto il possibile affinché il magnate indiano non scappi e non ci lasci con una fabbrica fallita e qualche centinaio di ettari da bonificare.

Si, perché la verità è proprio questa. È vero infatti che l’acciaio è indispensabile per le industrie italiane, è vero che la chiusura dello stabilimento di Taranto avrebbe ripercussioni sul PIL nazionale, ma il vero terrore di chi ci governa è la mancanza di un piano di riconversione per la città.

La possibile chiusura dell’ex Ilva è sempre stato un argomento tabù di cui era meglio non parlare. Italsider prima e Ilva dopo sono sempre state un serbatoio di voti, di assunzioni con raccomandazione, di tessere sindacali facili
e di lavoro assicurato per i poco intraprendenti imprenditori locali che, piuttosto che diversificare le loro attività, hanno preferito sopravvivere con gli appalti per l’indotto che negli anni sono divenuti man mano meno redditizi.

L’acciaieria tarantina ha “tirato a campare” per diversi anni dopo l’esproprio ai Riva e finanche quando era ormai palese la difficile, se non impossibile, sostenibilità economica e ambientale dell’industria tarantina, ben pochi hanno avuto il coraggio di pronunciare la parola chiusura.

Che fare di Taranto? Dove trovare le risorse per le bonifiche? Come garantire i salari a migliaia di lavoratori? Meglio continuare per anni a mettere toppe su toppe, inventare decreti su decreti, investire a perdere denaro su denaro purché venisse allontanata qualunque ipotesi di chiusura.

Una situazione molto simile a quella di Alitalia, con la differenza che Alitalia, in caso di fallimento, non lascerebbe un’eredità di inquinamento diffuso concentrato in un’unico posto.

La verità è questa: se chiudesse il siderurgico lo Stato dovrebbe far rinascere una città oltraggiata come Taranto. Ci vorrebbero tanti soldi per creare un’area franca che favorisca nuova imprenditoria; ci vorrebbe tanto denaro per smantellare un’industria grande quanto una città di 500.000 abitanti; ci vorrebbe tanto impegno e una visione del futuro che chi ci governa non è in grado di esprimere; ci vorrebbe un’operazione verità che partisse dall’ammissione del fallimento delle politiche industriali degli ultimi anni che né politici, né imprenditori ammetterebbero mai; ci vorrebbe un impegno per questa nostra città del Sud che il Nord non gradirebbe.

Meglio soprassedere a tutto ciò e cercare di mettere un’altra toppa alla faccenda, magari con l’ennesimo decreto, sperando che la tempesta passi presto.

E allora non si agitino troppo i vari commentatori (tra questi mi ci metto pure io): l’acciaieria di Taranto tirerà a campare ancora per qualche anno. Nessun piano B è mai stato pensato da chi ci governa e, a costo di statalizzarla, l’ex Ilva continuerà a produrre acciaio, magari in perdita, continuando pure a inquinare, ma non chiuderà per ora. La conferma a quanto ho scritto, ci scommetto, la avremo prestissimo.

Giuseppe Aralla

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Giuseppe Aralla

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