In questi giorni, l’emergenza incendi nella foresta amazzonica di Brasile e Bolivia preoccupa tutti e si moltiplicano appelli e iniziative per sollecitare a livello mondiale interventi per salvare milioni di alberi e centinaia di specie animali che rischiano l’estinzione.
È evidente che la deforestazione in atto nel “polmone del mondo” è una faccenda che interessa l’umanità nel suo complesso e la responsabilità per ciò che sta accadendo non può essere attribuita esclusivamente ai governanti dei paesi del sud America e in particolare a Bolsonaro che pure non è certo immune da gravi colpe.
Infatti, la deforestazione fa posto a centinaia di migliaia di ettari di terreno adibito a coltivazioni intensive soprattutto di soia che viene esportata in tutto il mondo occidentale per essere destinata soprattutto agli allevamenti intensivi di animali da macello.
Il consumo sempre in crescita di carne per uso alimentare necessita di enormi quantità di prodotti vegetali destinati a divenire mangime e, necessariamente, le terre destinate alle coltivazioni vengono sottratte alle terre vergini.
La veloce distruzione della foresta amazzonica, lo scioglimento dei ghiacciai perenni, l’accumulo di plastica negli oceani sono tutte conseguenze di uno sviluppo umano basato su stili di vita non più eco sostenibili.
Le tante emergenze ambientali che fino a pochi decenni fa avevano effetti limitati ad ambiti locali, assumono ora una rilevanza globale.
La globalizzazione dell’economia e degli stili di vita ha prodotto quindi una globalizzazione dell’emergenza ambientale.
Di fronte a questo inizio di suicidio generale dell’umanità, se pur apprezzabili ed auspicabili, i comportamenti virtuosi dei singoli non sono più sufficienti a incidere su un trend mondiale di distruzione del pianeta Terra.
Ambiente ed ecologia devono diventare punti centrali nelle politiche di governo dei paesi più industrializzati che hanno fino ad ora incoraggiato stili di vita dei cittadini non più sostenibili.
Allevamenti intensivi e monocolture agricole sono l’esempio più immediato di un modello produttivo malato e dannoso per il territorio.
In Italia, per esempio, oltre l’80% degli allevamenti di suini e polli si concentra in sole tre province, determinando in quelle aree un ricorso ad una agricoltura intensiva ed ad una importazione di mangimi vegetali venduti dalle multinazionali che riescono a imporre monocolture a interi territori produttivi, distruggendo così la biodiversità e creando economie troppo imbrigliate.
Diversificazione delle coltivazioni e allevamenti limitati a fornire carni per il solo fabbisogno locale dovrebbero essere modelli produttivi incentivati dei governi nazionali.
Più in generale, l’agricoltura dovrebbe riscoprire le peculiarità dei territori, l’esatto contrario cioè di quanto ci viene imposto dei processi di globalizzazione dell’economia.
In parallelo, lo stesso discorso potrebbe essere fatto per la produzione industriale.
Concentrare grandi produzioni altamente impattanti per l’ambiente in un piccolo territorio non è più ammissibile.
L’esempio dell’industria a Taranto è un caso da manuale su come non si dovrebbe fare in una società più attenta alla salute del pianeta. Non è infatti in alcun modo giustificabile, in un’ottica di sostenibilità ambientale, che solo per neutralizzare la CO2 prodotta nel territorio della nostra provincia ci vorrebbe una foresta grande quanto tutta la Puglia.
È come se anche noi bruciassimo ogni anno un bel pezzo di foresta amazzonica. È proprio il caso di indignarsi anche per questo.
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