Riceviamo e pubblichiamo una nota di Giustizia per Taranto.
L’azione del Governo contro Taranto si arricchisce di nuovi ricatti, questa volta è stata individuata perfino la data precisa per la chiusura dell’Ilva, il 9 gennaio. Un colpo di teatro, quello di Calenda durante il tavolo del 20 a Roma, necessario a trasferire su Regione, Comune e soprattutto sui lavoratori della fabbrica e dell’indotto, le pressioni che a sua volta il Governo riceve dalla banche, quanto mai ansiose di recuperare i lauti denari prestati incautamente ad Ilva.
D’altra parte la preoccupazione vera è quella, il Ministro Calenda fu chiaro qualche settimana fa durante la trasmissione Report, nella quale parlò della miglior offerta economica di Mittal rispetto alla cordata concorrente, evidenziando l’esiguità del peso che il piano ambientale ha avuto nel bando di aggiudicazione del siderurgico e non accennando minimamente agli aspetti occupazionali e sanitari del dramma tarantino. La conferma arriva proprio in queste ore con l’intimazione dell’UE al Governo italiano di recuperare 84 milioni di euro, configuratisi come aiuti di Stato all’Ilva che nulla avevano a che vedere con le misure per arginare l’inquinamento.
Una cosa però è vera rispetto a quanto affermato dal Ministro nel suo sfogo isterico: se il ricorso al Tar avverso all’ultimo decreto dovesse effettivamente dar ragione a chi lo ha impugnato, verrebbe meno l’immunità penale per Amministratori straordinari e nuovi acquirenti che il DPCM voleva ulteriormente prorogare dal 2017 al 2023.
Un ennesimo slittamento che, va sottolineato, è dovuto anche alle intenzioni di Mittal di non procedere con le principali opere ambientali per i primi due anni del suo insediamento, fin quando cioè deterrà la fabbrica in fitto per capire prima che aria tira, alla faccia delle garanzie che qualcuno vede ancora in questa cessione.
Un allungamento dei tempi che dunque mette nero su bianco il fatto che in tutti questi lunghi anni non si è voluto far nulla per la città e che le responsabilità della paventata fermata della fabbrica sarebbero pertanto da imputare a Ilva e Governo, non ad un ricorso che, al di là della visione industrialista di Emiliano e Melucci, pone un necessario limite a deroghe e proroghe rilanciate sulla pelle di tarantine e tarantini.
La differenza è sostanziale e rappresenta la dimostrazione ulteriore dell’incompatibilità della fabbrica con la vita e la prosperità di Taranto, dal momento che è proprio a causa di essa che tante altre realtà produttive vicine alle reali vocazioni del territorio sono in ginocchio e tante altre sono precluse dall’insistenza dell’incontrollato inquinamento ambientale. Con gli enormi fondi gettati via in quest’operazione disperata fra prestiti pubblici, casse integrazioni, produzione in perdita e probabili sanzioni europee, si dia piuttosto corpo ad uno straordinario piano di bonifica e riconversione del territorio nel segno di uno sviluppo realmente sostenibile e rispettoso delle persone.
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