Taranto libera, Taranto libera! L’hanno gridato recentemente perfino gli alunni della scuola primaria Giovanni Falcone di Paolo VI al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in visita qui da noi per l’inaugurazione dell’anno scolastico. Una città libera dai veleni, dalla malattia diffusa, dal giogo dell’industria che ci opprime ormai da decenni: questo il senso di quel canto che è diventato un vero e proprio inno di rabbia di tanti tarantini.
Chissà se il Capo dello Stato ha davvero inteso il messaggio inviatogli, se i suoi collaboratori gli hanno spiegato il senso di quel coro dei bambini. Personalmente ne dubito: i rappresentanti istituzionali in visita a Taranto negli ultimi anni (i vari Renzi, Clini, Orlando) non hanno forse mai colto la gravità del problema che viviamo e se la sono sempre cavata col classico discorso di compromesso che contempla la salvaguardia della salute e del lavoro.
A Taranto abbiamo avuto spesso, nella battaglia per la chiusura dell’ Ilva e per la riconversione economica della città, una visione abbastanza limitata al solo scenario locale. Ciò ci ha forse indotto ad essere, in alcune fasi della lotta, più ottimisti nei riguardi del nostro obiettivo finale. La vera ragione che spinge i decisori istituzionali a tenere in vita l’unica acciaieria a ciclo integrale d’Italia e che rende il nostro obiettivo più difficile da raggiungere è il fatto che questa è solo una parte dell’intera filiera dell’acciaio.
L’Ilva di Taranto è un pezzo non essenziale per la filiera, ma sicuramente il prodotto che esce dagli altiforni della nostra industria rende, per gli imprenditori, economicamente più conveniente la parte della filiera più avanzata, determinando maggiore valore aggiunto a chi utilizza l’acciaio nei successivi passaggi. La stessa Ilva di Cornigliano e di Novi Ligure (stabilimenti che in buona parte lavorano l’acciaio prodotto a Taranto), stando ad alcune analisi pubblicate di recente, realizza in Liguria il maggior valore aggiunto (valore del prodotto in uscita – valore del prodotto in entrata) e la maggior quota di redditività per l’intera azienda (il 70%).
In una recente intervista pubblicata sul Secolo XIX, il vice presidente di ArcerolMittal, Geert Van Poelvoord, ha spiegato che la produzione a Taranto è conveniente soprattutto per abbattere i costi di trasporto tra il Nord e il Sud Europa. L’acciaio di Taranto, lavorato a Genova, arriva poi per esempio nelle industrie automobilistiche e di elettrodomestici, completando una filiera che, grazie a costi complessivi più contenuti, genera maggiore valore aggiunto e quindi utili per gli imprenditori e stipendi per migliaia di lavoratori.
Una filiera ormai consolidata, tutta Made in Italy, che in pochi hanno interesse a sconvolgere andando ad acquistare prodotto estero con maggiori costi intermedi. A Taranto purtroppo tocca fare il lavoro sporco, quello che produce più inquinamento e malattia e che paradossalmente genera meno ricchezza. I dati del PIL e del reddito medio pro capite della nostra città indicano che siamo ben sotto la media dell’Italia e le cose non vanno certo meglio delle altre città del Mezzogiorno che non sopportano però il peso e il danno della grande industria. Un sacrificio, il nostro, che a giudizio di molti non vale la candela, che non determina cioè alcun vantaggio economico generale per la città, ma che anzi, al contrario, porta forse sottosviluppo e danno sanitario e ambientale. Abbiamo però la certezza di essere parte essenziale di un meccanismo di generazione di ricchezza nazionale. Vuoi mettere la soddisfazione?
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