TARANTO – La cozza tarantina ha un fascino particolare che non può sfuggire ad un occhio attento. Così, capita di riconoscerla in una piatto di spaghetti servito in un ristorante di Otranto, nel cuore del Salento, oppure in una trattoria sul lungomare di Giovinazzo, in provincia di Bari. E sono gli stessi ristoratori ad ammettere, davanti ai nostri sorrisi compiaciuti, che i mitili di Taranto hanno un sapore speciale che li distingue da tutti gli altri.
Un pizzico di orgoglio si accompagna ad una punta di rabbia. Un sentimento che proviamo dal luglio 2011, quando il primo seno del mar Piccolo diventò off limits per la mitilicoltura a causa della contaminazione da pcb e diossine. Tra i responsabili dell’inquinamento l’Ilva, le attività passate dell’Arsenale Militare, i tanti scarichi incontrollati. Dal 2011 ad oggi, poco è stato fatto per risollevare le sorti delle mitilicoltura tarantina. Anche il tentativo di trasferire gli allevamenti in mar Grande è abortito miseramente. L’unico baluardo resta il secondo seno di mar Piccolo, che oggi appare fiaccato da un’altra stagione torrida che ha comportato una vera e propria strage di cozze.
«E’ andato perso circa il 40-50% del prodotto – spiega a Inchiostroverde.it Emilio Palumbo, responsabile locale di Agci Pesca – ciò ha comportato un danno di 6-7 milioni. E’ il terzo anno, negli ultimi sei anni di attività, che subiamo questa catastrofe dovuta al surriscaldamento delle acque».
Resta, comunque, un grande cruccio: l’impossibilità di utilizzare il primo seno per gli allevamenti. «Per risollevare le sorti della cozza tarantina bisognerebbe puntare più sulla qualità che sulla quantità – sottolinea Palumbo – e per ottenere ciò bisogna assolutamente recuperare il primo seno. Occorre bloccare le fonti inquinanti e procedere con la bonifica. Invece, si sta pensando solo al recupero dei rifiuti ingombranti. In merito al disinquinamento delle acque, gli enti preposti sono ancora in fase di studio».
Quale futuro per la mitilicoltura tarantina? «Noi auspichiamo una rinascita dell’intero comparto. Se sfruttato bene potrebbe dare tanto all’economia locale anche in termini di occupazione», dice Palumbo. Se finora il settore è rimasto in ginocchio, è colpa in gran parte delle istituzioni che anche su questo fronte si sono mostrate poco attente e intraprendenti. Nei giorni scorsi, si è svolto un incontro tra Comune e associazioni di categoria per confrontarsi sulle problematiche del settore. «Il sindaco Melucci ci ha fatto una buona impressione – racconta Palumbo – ha preso degli impegni sulla richiesta dello stato di calamità (per la moria di mitili dovuta al caldo, ndr), su una convinta azione di contrasto all’abusivismo e su un’attività di marketing per sostenere l’immagine del prodotto. L’auspicio è che dalle parole si passi finalmente ai fatti concreti». Cosa che con la vecchia Giunta non è avvenuta.
Secondo il Censimento regionale della mitilicoltura pugliese, messo a punto nel 2012 dal Centro Ittico Tarantino, nel nord della Puglia si ha una produzione di 21.493 T, pari al 73,63% del totale; le province di Brindisi e Lecce contribuiscono con il 4,77% del prodotto, pari a 1.392 tonnellate; nella provincia tarantina si producono invece 6.233 T (21,60%), valore ridimensionato negli ultimi anni a causa delle note criticità. Un dato che va migliorato e consolidato quanto prima nell’interesse di un intero territorio e di una comunità che non può solo vivere (o sopravvivere) di industria inquinante.
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