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Il paradosso di Taranto: città della Magna Grecia che dimentica gli archeologi

TARANTO – Capita di passeggiare per il centro ed incontrare una giovane promoter di una nota marca di bevande gassate che ti offre una lattina da provare e, dopo averci scambiato due parole, scoprire che è (forse non te lo saresti aspettato) una laureata in archeologia costretta a sbarcare il lunario con un lavoro non certo consono ai suoi studi.

Questo capita nella nostra città, ma certamente non solo qui, considerando che il lavoro giovanile, soprattutto al Sud, è sempre più atipico, fatti di sfruttamento, precarietà, sottomansionamento, adattamento. Non so nulla di questa ragazza e non la riconoscerei neanche se la incontrassi, ma la professionalità e l’applicazione con cui svolgeva il suo lavoro di promoter ha un qualcosa di eroico ed encomiabile: è la fotografia dell’impegno che tanti giovani mettono per crearsi un futuro migliore in una società in cui ciò che dovrebbe essere normalità (ottenere un lavoro consono alle proprie caratteristiche personali) è divenuto eccezione.

Potremmo discutere molto sull’iniquità della distribuzione delle ricchezze (problema accentuatosi negli ultimi decenni), sulla lotta generazionale (gli anziani stanno economicamente meglio dei giovani), sulla perdita di diritti dei lavoratori (vedi articolo 18 e jobs act), fino a concludere che la colpa di tutto ciò è la globalizzazione, ma sarebbe forse un solo esercizio retorico.

Molto più semplicemente, rimanendo sul caso della brava promoter, ci chiediamo come sia possibile che in una città come la nostra, in cui basta scavare un solco per le tubature per scoprire una tomba greca o romana, non vi siano le opportunità per dare lavoro ad un archeologo, visto che di questo parliamo, ma anche ad un biologo marino, un ingegnere ambientale, un architetto, un esperto di belle arti o a chiunque altro potrebbe far valere le proprie capacità professionali a vantaggio del territorio.

Poco più di 11.000 euro pro capite il reddito medio degli abitanti di Taranto negli scorsi anni, un valore abbastanza prossimo alle medie della regione Puglia (in cui Bari risulta la città meno povera) e più in generale del Sud. Una situazione drammatica, una crisi economica ormai cronica di cui non si vede via d’uscita. Il Meridione sprofonda sempre più verso la povertà diffusa e Taranto non mostra segnali di ripresa, anzi, addirittura, per alcuni parametri la situazione della nostra città è ancor più preoccupante.

Aspettiamo per le prossime settimane il rapporto Taranto 2017 di Confcommercio che ci darà la situazione economica e occupazionale aggiornata al 2016, ma riteniamo di poter prevedere dati non dissimili da quelli degli anni scorsi: tante attività che chiudono, disoccupazione stabile o in crescita, massiccio ricorso alle misure di sostegno pubblico al reddito, giovani che emigrano e così via.

Taranto come le altre città del Sud? Bene, mal comune mezzo gaudio potremmo dire. E invece no, questa crisi non dovrebbe esserci nella nostra città. Qui abbiamo la grande industria, quella che assicura 20.000 posti di lavoro, quella che fa aumentare di un punto il pil nazionale. E allora come mai la crisi a Taranto è grave come e più che a Bari, a Lecce o a Foggia? Come mai i nostri giovani fuggono da questa città lasciandola senza speranza? Cosa ci guadagniamo dalla presenza industriale se poi i benefici economici non si vedono?

A Taranto paghiamo due volte lo scotto di una società ormai sempre più ingiusta: paghiamo in termini di povertà diffusa e in termini di danno ambientale e sanitario. Queste cose le avrei volute dire a quella ragazza che sorridente distribuiva lattine e che forse neanche ci ha mai pensato ai tanti paradossi della nostra società, ma penso che le avrei soltanto rovinato un onesto pomeriggio di lavoro.

Giuseppe Aralla

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Giuseppe Aralla

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