Ilva: un affare per ArcelorMittal, un’incognita per tutti gli altri
TARANTO – Un piano industriale probabilmente molto aggressivo e ancora non presentato ufficialmente; l’intenzione della società Am Investco Italy (ArcerolMittal e Marcegaglia) di aumentare la produzione di acciaio a livelli impressionanti (10 milioni di tonnellate comprese le bramme che giungeranno dagli stabilimenti di Marsiglia); un piano occupazionale che prevede migliaia di esuberi; investimenti per oltre un miliardo di euro per la cosiddetta “ambientalizzazione” distribuiti in un arco di tempo abbastanza prolungato (fino al 2023): sono questi i punti principali alla base della svolta gestionale che verrà dal passaggio di Ilva dai commissari governativi al nuovo padrone.
Di sicuro, nell’aggiudicazione della gara per l’acquisizione di quella che fu l’acciaieria dei Riva, vi è solo il prezzo di acquisto: 1,8 miliardi di euro che la società dovrebbe versare nelle casse dello Stato al termine di un percorso piuttosto complesso che porterà al definitivo passaggio di proprietà. Modernizzazione degli impianti, utilizzo di sistemi di contenimento delle emissioni, copertura dei parchi minerali, il tutto però mantenendo le stesse metodologie produttive attuali e sfruttando al massimo le capacità dell’industria e prevedendo la rimessa in funzione di AFO5 che da solo garantiva circa il 40% della produzione di ghisa.
Probabilmente nessun utilizzo di preridotto, come invece prevedeva il piano industriale dell’altra cordata, a maggioranza indiana Jindal, concorrente in gara per l’aggiudicazione di Ilva. Un passaggio di mano in chiaroscuro quello che sta avvenendo in questi mesi e che può essere commentato da diversi punti di vista, portando a giudizi molto variegati, addirittura completamente opposti a seconda degli interessi dei tanti attori coinvolti nell’intera vicenda Ilva.
Sicuramente un affare interessante per la società con sede legale in Lussemburgo. ArcelorMittal, grazie all’acquisizione di Ilva, vede crescere la sua quota di produzione mondiale di acciaio che negli ultimi mesi era in lieve diminuzione, attestandosi a circa 21 mil/t trimestrali (circa 85 mil/t annue).
La società del magnate indiano Mittal si rafforzerà sul mercato mondiale dell’acciaio (che comunque è di 1,6 miliardi di tonnellate/anno), divenendo il maggior produttore europeo e aumentando il proprio margine operativo lordo (circa 9 miliardi di dollari) che servirà a mitigare il peso di un indebitamento di circa 12 miliardi di dollari verso le banche creditrici.
Un’acquisizione strategica, quindi, utile soprattutto a rafforzare l’immagine di gruppo societario solido e in cerca di opportunità di crescita a livello mondiale. L’efficientamento produttivo, la messa in sicurezza degli impianti e il miglioramento dei sistemi anti inquinamento di Ilva porteranno certamente grandi costi alla società aggiudicataria della gara, probabilmente tanto alti da mettere in dubbio, secondo alcuni, l’effettiva convenienza, almeno a breve termine, dell’affare appena concluso.
E’ certo, però, che i benefici che verranno dal rafforzamento dell’immagine societaria a livello mondiale giustificheranno tale scelta di acquisto. Se da una parte c’è chi acquista volentieri, dall’altra c’è lo Stato che proprio non vede l’ora di uscire dalla difficile gestione post Riva dell’Ilva. Tanti i denari pubblici bruciati negli ultimi anni da parte dei vari commissari nominati dal governo a partire dal 2013 in seguito al sequestro degli impianti.
Opere di adeguamento alle prescrizioni AIA, produzione ridotta per contenere nei limiti di legge le emissioni e riduzione delle commesse, hanno provocato perdite economiche di diverse centinaia di milioni di euro alla grande industria che è riuscita a rimanere attiva solo grazie al contributo diretto dello Stato che ha garantito prestiti ponte (l’ultimo di 300 milioni di euro nel 2016) e finanziamenti bancari.
Un impegno enorme nella gestione diretta dell’Ilva, ma spese altrettanto ingenti e non facilmente quantificabili hanno pesato sui bilanci pubblici per i danni diretti e indiretti provocati dall’inquinamento sul territorio e sulla salute dei cittadini di Taranto. Un danno non risarcibile con qualunque cifra quello che la città di Taranto e i suoi cittadini hanno subìto in termini ambientali e sanitari. Nessun risarcimento e nessuna somma derivante dalla vendita di Ilva potranno mai ridarci mari, terre e falda non inquinati, come neanche potranno ridare la vita ai tanti malati che non ce l’hanno fatta, vittime dell’industria.
Ma l’impegno dello Stato non finirà certo con la cessione di Ilva al gruppo Am Investco Italy: negli accordi di vendita sono previsti circa 4.000 esuberi di lavoratori il cui destino è ancora tutto da decidere, ma che con tutta probabilità verrà tutelato con l’intervento pubblico, a spese cioè della collettività.
Fermo restando che il reddito di qualunque lavoratore debba essere salvaguardato, ci chiediamo se il Governo, negli accordi per la cessione della grande industria, non sia stato forse troppo generoso su questo punto, ma anche su altre questioni riguardanti gli oneri economici dello Stato, impegnandosi a farsi carico di spese che magari potevano essere risparmiate.
Concordi nel criticare il piano di ridimensionamento occupazionale tutti i sindacati nazionali che, con qualche distinguo, ritengono la salvaguardia del lavoro prioritario rispetto a qualunque altro aspetto, diventando questa questione fondamentale nel confronto col governo e la società acquirente.
Diverso, invece, il punto di vista dei sindacati di base, ben rappresentati a livello aziendale e recentemente molto vicini alle problematiche del territorio e della cittadinanza in cui Ilva opera: non solo mantenimento dei livelli occupazionali attuali, ma anche tutela della salute e dell’ambiente dentro e fuori la fabbrica, punti parimenti importanti, tanto da entrare nella piattaforma di trattativa sindacale che l’USB porterà a Roma a settembre nell’incontro al Mise.
E I cittadini di Taranto come vedono la cessione di Ilva al nuovo gruppo? Molti con la solita distrazione che spesso ci contraddistingue, frutto di un’antica abitudine a ritenerci ininfluenti sulle scelte di indirizzo generale che avvengono a livello nazionale. D’altronde, una decina di decreti “salva Ilva”, entrati in vigore scavalcando decisioni della Procura e leggi ordinarie, hanno fiaccato la voglia di lottare di molti cittadini che ormai accettano passivamente qualunque decisione presa sulle proprie teste.
Altri, invece, seguono con maggiore attenzione le vicende Ilva e i temi ambientali e il rischio sanitario da inquinamento. Per alcuni, la cessione di Ilva al nuovo gruppo sarà un passo positivo verso la cosiddetta “ambientalizzazione” che, a loro dire, concilierà le esigenze della produzione e del lavoro a quelle dell’ambiente e della salute, in un compromesso che accontenterà tutti.
I più pessimisti (e tra questi c’è anche il sottoscritto) ritengono invece che continueranno a persistere ragioni di incompatibilità ambientale e sanitaria tra grande industria e territorio, malgrado qualunque investimento in tecnologia anti inquinamento: troppo impattante una acciaieria da 10 mil t/anno per una città così a ridosso di essa.