TARANTO – In Norvegia, nel primo quadrimestre di quest’anno, il 50% delle auto vendute sono elettriche; la Finlandia, paese più green del mondo sta perfezionando le reti di trasporto che a breve sostituiranno del tutto le auto private e le luci intelligenti fanno risparmiare fino al 40% di energia elettrica.
Persino la Cina, spinta soprattutto dai livelli di inquinamento raggiunti nelle città, ormai incompatibili con la normale vita degli abitanti, punta sulla rivoluzione ecologica per il proprio sviluppo economico. L’Italia invece, dopo essere stata nella top ten dei Paesi più green del mondo nel 2012, è ora al ventinovesimo posto e continua a perdere posizioni.
Per rendere un’idea di quanto siamo indietro, basti dire che nel gennaio 2017 si sono vendute solo 188 auto elettriche in Italia (0,1% del totale) e 4.663 auto ibride (2,7% del totale). Malgrado la volontà di Enel di installare colonnine per la ricarica delle auto elettriche in circolazione, solo pochi Comuni si sono adoperati per creare spazi appositi e per facilitare l’espletamento delle pratiche burocratiche per consentire ciò.
Addirittura, nelle autostrade, vi è la netta opposizione dei gestori delle aree di rifornimento carburante all’installazione di colonnine di ricarica elettriche, considerate forse una “minaccia” al monopolio nell’uso dei derivati del petrolio. Sempre meno industria inquinante, meno uso del carbone e meno auto sembrano essere, invece, le politiche economiche vincenti per quei Paesi (Finlandia, Islanda, Svezia, Danimarca, Slovenia, Spagna, Portogallo) che cavalcano la rivoluzione ecologica della green economy e che quindi abbandonano modelli di sviluppo nati con la seconda rivoluzione industriale di fine ‘800.
Questa svolta, per i Paesi che la praticano, non è dovuta soltanto a questioni etiche e alla volontà di rispettare l’ambiente, ma rappresenta una vera e propria opportunità di sviluppo economico legata al cambiamento e ad una nuova visione del futuro.
Anche Trump, dopo aver sostenuto in campagna elettorale che non avrebbe rispettato gli Accordi di Parigi sul clima, sembra ora quasi cambiare idea, spinto dalle pressioni delle aziende specializzate in modelli produttivi eco-compatibili. Ma cosa impedisce all’Italia di cambiare rotta e di puntare diritta verso politiche di sviluppo sostenibile seguendo l’esempio di altri Paesi che così facendo stanno creando ricchezza e occupazione?
Probabilmente, in Italia, vi è una resistenza maggiore al cambiamento: le lobby del fossile, dell’industria pesante, delle costruzioni, della finanza, nonché un sistema di potere supportato da queste stesse lobby e ramificato in mille società legate all’attuale modello di sviluppo, impediscono l’affermarsi di nuove opportunità che il green potrebbe garantire. In Italia, cioè, il cambiamento fa paura a chi dall’attuale sistema trae profitto e potere. E a Taranto vi è l’esempio più palese di questa resistenza al cambiamento.
Siamo proprio certi che tenere in vita un’industria figlia di una visione ottocentesca della produzione sia la soluzione migliore per la città e per l’economia nazionale? Cosa porta tanti politici, sindacalisti, imprenditori, a resistere all’inevitabile cambiamento che prima o poi avverrà? Paura del nuovo certamente, ma anche il radicamento in un sistema che dà potere e benefìci o la certezza di uno status quo favorevole ai singoli e che impedisce scelte innovative e alternative.
Tanti soldi pubblici spesi per puntellare un modello di impresa che non regge più per mille ragioni (ambientali, sanitarie, di mercato), impuntandosi sulla possibile ma in verità assai improbabile, ambientalizzazione di un’industria nata ormai sessant’anni fa, quando invece si sarebbe dovuto cambiare completamente progetto per Taranto, facendo del nostro territorio un laboratorio di idee e sviluppo innovativo particolarmente rivolto al l’eco-sostenibilità.
Tecniche di bonifica innovative, ricerca e studio di nuovi materiali, ricerca scientifica, produzione energetica pulita, potevano svilupparsi in questa terra e favorire anche altri settori dell’economia, occupando gli stessi lavoratori dell’industria e creando ricchezza e competenze invece che debiti e inquinamento. Ma per fare ciò deve prima crollare il sistema Taranto in cui tanti sguazzano grazie anche ad una politica nazionale tanto resistente al cambiamento.
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