“Mi accetto se”: dichiarare guerra al corpo per ritenersi degni di valore

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TARANTO – Siamo fin troppo abituate a parlare di rapporto con il partner, con il capo, con i colleghi, con i figli… ma sempre meno di rapporto con noi stesse: una relazione che ingloba tutte le altre trascendendo limiti antropologici e socio-culturali. In questa sede, mi soffermo sull’esame di una delle relazioni più controverse che la donna è chiamata a gestire per buona parte della sua vita: quella con il proprio corpo. Non è un caso che io scelga di farlo in un mese, quello di maggio, in cui il richiamo alla fatidica “prova costume” sembra chiamare tutti a raccolta, nessuno escluso.

Sono poche, infatti, le donne che vivono serenamente la propria corporeità, accogliendo la propria fisicità con amore e consapevolezza. Cresciuta con l’ingombrante ideale estetico rappresentato da barbie, gran parte della compagine femminile, vive una guerra aperta con un corpo percepito come estraneo, un vero e proprio ospite indesiderato se non addirittura come un pericoloso nemico da combattere con costanza e determinazione.

La consacrazione della bellezza estetica a mezzo social, i cui diktat campeggiano indisturbati da quasi vent’anni o più, non aiutano di certo lo sviluppo e il risveglio delle coscienze ormai ammansite né stimolano la riflessione più profonda verso il cuore del problema: l’incapacità umana di fare i conti con l’imperfezione.

Ma dov’è la reale misura della perfezione e soprattutto, esiste davvero?

“Se la perfezione non fosse una chimera, non avrebbe tanto successo.” – Honoré de Balzac, Massime e pensieri di Napoleone, 1838.

Da ex “vittima” di questo morbo ruba ossigeno che è il perfezionismo, posso assicurarti che no, la perfezione non esiste. Pertanto, se ti riesce, inizia ad accettare l’idea che la guerra che stai dichiarando a te stessa, non ti porterà proprio da nessuna parte.

Per quanto la mia estenuante rincorsa verso questo ideale, in passato, investisse soprattutto la sfera dei comportamenti, delle ambizioni e delle abitudini piuttosto che quella corporea (da piccola ho sempre vissuto bene la mia fisicità, e l’anoressia è una malattia che con non ha nulla a che vedere con il cibo) riconosco che uno dei modelli di perfezione in assoluto più discussi negli ultimi anni, sia proprio quella che attiene al corpo.

Assimilato a quello di un manichino, vessato, umiliato, spodestato, bersaglio perenne di una frustrazione senza eguali, il corpo e la sua immagine diviene spesso lo specchio su cui si riflette imperante, un’autostima precaria e fragilissima. Ed è questo il cuore del problema: vi siete mai chiesti cos’è davvero “l’autostima”?

Una delle verità più scomode che ci raccontiamo è quella di confondere la misura del nostro valore in quanto esseri umani, con la percezione delle nostre competenze e dei nostri limiti nell’eseguire qualcosa, sia che riguardi la nostra vita professionale che il nostro ruolo di mogli, madri, fidanzate, sorelle. A questo proposito, una delle conquiste più belle donatemi dai miei percorsi di coaching è proprio la distinzione tra autostima ed autoefficacia, una differenza che salva la pelle, l’umore, la vita!

Ti spiego perché: quando ero una liceale, la misura del mio valore era di stampo prestazionale: mi consideravo “degna di essere al mondo” soltanto a patto di eccellere in ogni campo della mia vita. Lo schema che abitualmente applicavo era sempre quello di un’accettazione condizionata espressa, puntualmente nel “mi approvo se”: se, a patto che, dimostro, appunto, di essere la migliore sempre e in ogni occasione. Gli anni della mia anoressia, sono stati solo l’effetto esteriore di una vera e propria guerra interiore in cui credendo di colpire qualcuno all’infuori di me, ho mancato il bersaglio, colpendo invece me stessa.

In realtà quello che a quei tempi sfuggiva alla mia comprensione era che, qualsivoglia disciplina in cui i miei elevatissimi standard di perfezionismo trovassero occasione di esprimersi (consumando tutto il mio serbatoio energetico), atteneva alla sfera del FARE, un ambito assolutamente legato a parametri esterni, in cui la persona può misurare la sua fiducia in se stesso o autoefficacia. Mi spiego meglio: se il mio talento è quello di edificare palazzi, in questo campo la mia autoefficacia è certamente molto elevata, mentre se mi chiedessero di entrare in sala operatoria per operare a cuore aperto sarebbe probabilmente molto bassa. In tal caso, il criterio in base al quale mi considero efficace in qualcosa o meno è legato puramente a variabili esterne a me.

La storia ci insegna inoltre che, in ogni epoca, la comunità del momento ha adottato una serie di regole per stimare il valore dell’individuo : a volte, era il denaro ad essere assunto come indicatore, altre volte l’aspetto fisico, altre volte ancora la forma fisica. Quest’ultima, oggi è in assoluto l’ideale estetico che tutto governa e in nome del quale si è pronti a sacrificare un reale ascolto di sé, con il rischio di scivolare in patologie gravi, come accade con i disturbi alimentari, la vigoressia (preoccupazione estrema e ossessiva per la propria massa muscolare) o l’attegiamento compulsivo verso la chirurgia estetica.

Viene da sè che ognuno di questi parametri assume una connotazione valoriale assolutamente labile, estremamente variabile e fluttuante. Quando io facevo dipendere il senso di me dai voti che prendevo a scuola o dal numero di vasche che riuscivo a nuotare in piscina, non facevo altro che confondere la mia autostima (parola che in realtà non conoscevo affatto) con l’autoefficacia.

Ma cosa vuol dire dunque autostima?

Se l’autoefficacia riguarda il fare, l’autostima si riferisce all’ambito dell’essere e dipende da quell’unico insostituibile valore che possiamo coltivare solo all’interno di noi e cioè: l’ammirazione e il rispetto profondi per la nostra anima, per il mistero di chi siamo come esseri umani fallibili ma non per questo falliti, il cui comportamento può essere condannabile ma non l’essere umano in quanto tale. Perchè? Perchè noi non siamo in nostri comportamenti. Siamo infinitamente di più.

Autostima è riconoscere che abbiamo le risorse adatte a raggiungere obiettivi, celebrare ed onorare chi siamo in quanto esseri umani, indipendentemente dai riscontri di ciò che facciamo (carriera, posizione finanziaria, età, estetica) o dall’approvazione altrui. Per amarci non dobbiamo aspettare di raggiungere alcun obiettivo. Possiamo semplicemente decidere di sentirci così in questo preciso istante. Si tratta di una consapevolezza che deve arrivare da noi perché NESSUNO può offrirla dall’esterno e non è un caso che si chiami auto-stima. E’ una tua responsabilità. E a me personalmente, piace chiamarla libertà.

Clarissa Pinkola Estès in “Donne che corrono coi lupi” esprime enfaticamente il concetto , quando scrive che “le donne relegate a umori, manierismi e contorni che si uniformano a un unico ideale di bellezza e di comportamento, sono catturate nel corpo e nell’anima e pertanto non libere. Son donne che non onorano la propria natura selvaggia, il proprio spirito e diritto all’esultanza, restituendo alla massa e dunque all’infuori di sé, il diritto di sentenziare su cosa è ascrivibile come “bello”.  E tu, sei interessata a “subire” o a plasmare il tuo personale concetto di “bellezza”? Chiunque sia tu che mi leggi, proprio in questo istante… sì, dico proprio a te… sei una MERAVIGLIA. Proprio così, come sei.

Floriana Maraglino è una Life & Business Coach, Trainer aziendale e Insegnante certificatoHeal Your Life®.
Appassionata di mente umana e fisica quantistica è anche libera ricercatrice di medicina quantica.
Lavora per aziende e privati, tiene conferenze, seminari e corsi individuali, sessioni di coaching personalizzate e di gruppo. E’ ideatrice del metodo TalentiAMO e organizza percorsi di guida e sostegno sui disturbi alimentari, lavorando in equipe con psicologi e nutrizionisti.

 

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