Taranto: il prossimo sindaco sia un baluardo contro lo sviluppo a tutti i costi

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Politiche mondiali, nazionali e locali spesso procedevano, fino a pochi anni fa, in direzioni diverse e addirittura contrapposte. Globalizzazione, mercati unici, strapotere delle multinazionali e situazioni di instabilità regionali tendono ora ad uniformare le politiche di sviluppo economico dei Paesi industrializzati spingendo le società verso una corsa alla produzione a tutti i costi, intaccando i diritti dei lavoratori e la protezione dell’ambiente.

L’elezione di Trump alla Presidenza degli Stati Uniti d’America e la sua visione di sviluppo economico più libero dalle limitazioni imposte dalla protezione dell’ambiente, ci fanno temere l’inizio di un’epoca che potrebbe portarci ad un pericoloso punto di non ritorno per l’Umanità: l’entrata definitiva nella spirale di insostenibilità del pianeta Terra a causa delle attività antropiche.

Il disconoscimento degli accordi di Parigi sul clima e sull’impiego del fossile da parte degli Stati Uniti sono un preoccupante campanello d’allarme per il nostro futuro e un passo indietro di almeno vent’anni rispetto a politiche mondiali di attenzione all’ambiente. Con Trump prende forza il punto di vista di chi considera mero catastrofismo la paura di coloro i quali ritengono ormai compromesso l’equilibrio tra l’uomo e l’ambiente.

Il cambio di rotta voluto da Trump potrebbe indurre altri Paesi a considerare la crescita economica unico obiettivo da perseguire, indipendentemente dalle conseguenze sull’ambiente e sul clima che ciò potrebbe comportare. Il rispetto dell’ambiente non è quindi più la discriminante che divide i Paesi ricchi (Stati Uniti, Paesi europei, Giappone) da quelli in via di sviluppo (Cina, Brasile, Paesi africani): la necessità di migliorare le condizioni di vita della popolazione non sono più l’unica giustificazione al mancato rispetto degli accordi internazionali sui limiti alle attività antropiche impattanti sull’ambiente.

La crisi economica mondiale, l’instabilità politica all’origine di un gran numero di conflitti regionali e il terrorismo ci fanno temere che la salvaguardia delle risorse naturali del pianeta diventi un obiettivo secondario dei governi rispetto a questi problemi. Più in generale, lo sviluppo economico diventa sempre più unico motore del mondo, capace di provocare guerre, ridurre le ideologie al rango di inutile ostacolo alla crescita e valida ragione per giustificare limitazioni di libertà e perdita di autodeterminazione dei popoli.

Il paradosso è che sviluppo economico dei Paesi non significa, quasi mai, miglioramento delle condizioni di vita dei singoli ma, al contrario, impoverimento di intere fasce di popolazione costrette sempre più spesso ad accettare condizioni di sfruttamento lavorativo in un contesto di perdita di diritti civili. Viviamo quindi in un mondo governato da un potere economico sovrastrutturato rispetto ai singoli Stati e capace di orientare scelte politiche e programmi di sviluppo? Non possiamo affermarlo con certezza e vogliamo sperare che non sia così e che resti ancora ai popoli la forza e la capacità di decidere sul proprio futuro, impedendo al potere della finanza di essere l’unica spinta che muove le società.

Considerando che i governi nazionali sono sempre più obbligati ad adeguarsi alle scelte internazionali dei Paesi partner e che ormai i singoli cittadini possono fare ben poco per modificare gli schemi sociali e produttivi che il motore economico mondiale impone, l’unica reale possibilità di resistenza civica diventa l’ambito locale. Le sensibilità locali, il legame col territorio di chi in esso vive, la tradizione e il patrimonio culturale formano una coscienza delle comunità in grado di resistere al cambiamento spinto soltanto dal potere economico che altrimenti trasformerebbe completamente la nostra società.

Immaginiamo cosa potrebbe essere una città che guardi solo alla crescita economica e allo sviluppo produttivo allentando i vincoli ambientali, paesaggistici, architettonici, culturali, storici: ci ritroveremmo in breve a vivere in un ambiente che non riconosceremmo più come nostro, svuotato dei contenuti che caratterizzano un territorio. Per tutte queste ragioni, la scelta delle persone a cui affidare il governo di una città è cosa seria che merita attenzione.

Un sindaco, una giunta comunale, sono sempre più l’ultimo baluardo di resistenza attiva alla prepotenza della finanza che, seppur manovrata dall’uomo, è uno strumento di potere che non ha coscienza e che pertanto non si fa scrupoli nel trasformare e snaturare territori e città. Abbiamo vissuto sulla nostra pelle a Taranto la trasformazione di un territorio, della sua economia, della sua struttura sociale e urbana.

Abbiamo visto come sia stato rapido il cambiamento: secoli di storia e tradizioni sono stati cancellati per una scelta puramente economica che non ha portato concreti benefici alla comunità e forse ancora maggiore sarebbe stato il danno se non vi fosse stata una presa di coscienza dei cittadini che hanno difeso con i denti ciò che si poteva ancora salvare. Non resta molto da difendere a Taranto, considerando la violenza e la prepotenza con cui la nostra città è stata trattata negli ultimi decenni da parte di chi ci ha imposto modelli di sviluppo economico e produttivi obbligati, ma ciò che resta non dovrebbe più essere gestito da chi è stato soltanto impassibile e silenzioso notaio, se non addirittura complice di scelte sconsiderate.

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