TARANTO – Percorrere il raccordo E-90 che da Ponte Punta Penna immette sulla Statale 106 in un giorno di vento è un’esperienza che provoca tristezza. Non basta un sole splendente a nascondere le polveri minerali che colorano tutto di rosa pallido. Strade, guard rail, perfino le erbacce sui bordi della carreggiata si ricoprono di una patina che sa di vecchio, di polvere del tempo.
Se non fosse per le auto che sfrecciano, quel paesaggio sembrerebbe un mondo senza vita, una periferia abbandonata dopo una guerra atomica. Viene naturale accelerare in quel tratto di strada più prossimo ai parchi minerali dell’Ilva sperando di ritrovare presto i colori della campagna, oltre la zona industriale. Gli eucalipti che circondano il recinto dell’acciaieria hanno le foglie rade e sbiadite. Non hanno le gambe gli alberi per correre anch’essi lontano da lì, ma lo farebbero davvero se potessero.
Non c’è nulla di bello in quel paesaggio che attraversiamo riparati nelle auto, mentre fuori un vento cattivo continua a spargere polvere ovunque. Non basta un’ordinanza del sindaco per proteggerci dal rischio di respirare polveri inquinanti. Ciò è evidente se si osserva una mappa satellitare della zona industriale che confina col quartiere Tamburi. Le case sono appena oltre le collinette artificiali che dovrebbero proteggere quella parte della città dal vento che sparge polveri e veleni.
Il minerale ferroso raccolto sui balconi delle case dei Tamburi in questi giorni di vento ne è la prova evidente ed è il simbolo, forse più clamoroso, di una vicinanza inconciliabile tra industria e città. L’industria non ha confini precisi: non finisce certo con i muri di recinzione. Il suo impatto sul territorio e i suoi effetti, anche evidenti, si percepiscono più nettamente nelle sue immediate vicinanze.
Non è giusto violentare così una città, limitare i diritti di chi la abita, sottoporre tanta gente ad un rischio in ogni caso eccessivo per la propria salute. È una considerazione ovvia per chi come noi lotta da tanti anni per la chiusura delle fonti inquinanti, ma che nei wind days assume un significato di denuncia ancora più drammatico e pressante. Che cittadini siamo a Taranto? Perché i nostri diritti vengono calpestati malgrado l’evidenza di un danno che da tanto ormai subiamo?
Cosa ci rende diversi dagli abitanti di Genova Cornigliano che ottennero la chiusura dell’area a caldo di Ilva senza un impatto troppo pesante sui lavoratori? Verrà la pioggia dopo il vento di questi giorni e in parte porterà via le polveri, le particelle di minerale ferroso: le strade, le case, le foglie appariranno meno sporche e perfino la primavera si presenterà alle porte dei Tamburi con i suoi colori. Basterà questo a toglierci di dosso questo senso di tristezza che il vento ci ha portato?
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