Jindal & Mittal su Ilva: non è tutto acciaio quello che luccica

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Riceviamo e pubblichiamo una lettera aperta di Sergio Bellavita del coordinamento nazionale USB sulla questione vendita Ilva.

Il 6 marzo alle ore 14 sono state formalmente aperte le offerte vincolanti presentate dalle due cordate scese in campo per l’appetibile acquisizione dell’Ilva di Taranto, attualmente in amministrazione straordinaria. Ora sono state inviate all’advisor Rotschild, organizzazione finanziaria globale, proprietà della famiglia tedesca omonima che in Italia si è occupata anche della quotazione in borsa di Enav. 

Da una parte la cordata raccolta nel consorzio AcciaItaliacapeggiata da Jindal (35%), insieme al gruppo Arvedi (10%), Cdp (27.5%) e alla Delfin di Leonardo Del Vecchio (27.5%). Dall’altra Am Investco Italy, una joint venture con a capo ArcelorMittal (85%) insieme al gruppo Marcegaglia (15%). Pubblicamente nulla è dato sapere di cosa si nasconde dietro alle roboanti dichiarazioni della contesa pubblica tra i due colossi dell’acciaio. Qual’è il prezzo che dovranno pagare i lavoratori e la città di Taranto?

ArcelorMittal ha sfoderato due assi nella manica: la presenza di Banca Intesa Sanpaolo nel progetto e la decisione di ricostruire l’altoforno AFO5. Dall’altra Jindal che scommette molto sul rapporto con la città di Taranto, dal ritorno del cielo azzurro al calcio. Entrambi dichiarano la volontà di investire diversi miliardi di euro nello stabilimento siderurgico. Il primo immagina di produrre 6 milioni di tonnellate all’anno nel breve periodo, utilizzando i tre altiforni in servizio ora, per poi assestarsi a 10 milioni di tonnellate comprensive di 4 milioni di bramme e coils laminati a caldo aggiuntivi all’attuale produzione. Il secondo promette di portare la produzione a 12 milioni di tonnellate, di cui 6 milioni con tecniche tradizionali e gli altri 6 con gas metano e forni elettrici.

Ma è tutto acciaio quello che luccica? Entrambe le cordate dichiarano di voler sfruttare lo stabilimento così com’è per un non meglio precisato periodo di tempo, durante il quale confermare, di fatto, gli attuali livelli produttivi di Ilva.

Considerato che i commissari hanno appena spuntato un accordo sulla CIGS, non sottoscritto da USB, che gli consente di produrre 6 milioni di tonnellate con al massimo 7500 lavoratori, il calcolo sulle proporzioni dei esuberi è presto fatto. I promessi incrementi di produzione sono in sostanza demandati ad un futuro che, come ci insegna la lunga storia dei piani industriali che hanno accompagnato il processo di distruzione del patrimonio industriale del nostro paese, è sempre alquanto incerto…

Così come, per il momento, appaiono solo promesse quelle delle nuove tecnologie produttive e del risanamento ambientale per ridurre i veleni su Taranto, giusto per accaparrare il consenso politico e sociale necessario ad acquisire l’acciaieria. Gli interessi in gioco sono enormi. Jindal preme per entrare in un mercato importante in cui non ha stabilimenti produttivi mentre ArcelorMittal, leader assoluto nella produzione dell’acciaio a livello mondiale, ha bisogno di consolidare e estendere la sua supremazia, non necessariamente a livello produttivo. 

Che gli interessi siano enormi lo testimonia il duro livello di scontro, tutto interno al PD, che si è persino riversato sui tavoli istituzionali. Da una parte Renzi, comparso senza titolo alcuno ad un incontro convocato dal viceministro Bellanova, schierato per ArcelorMittal e soprattutto Marcegaglia, dall’altra il governatore della Puglia Emiliano, fautore della decarbonizzazione, apertamente a favore della cordata Jindal.

Così la drammatica vicenda Ilva, il suo portato di veleni e di morte, è divenuta terreno fertile per una politica che ha smarrito senso e ruolo della sua ragion d’essere nel momento in cui mette in campo come unica opzione la consegna  nuovamente ai privati del futuro di un’intera città. Il rischio di una nuova sciagura industriale, sociale e ambientale è sempre più forte.

Lo scenario che si apre richiama inevitabilmente uno schema già tragicamente sperimentato in altre operazioni industriali. La cordata che si aggiudicherà l’acciaieria entrerà con una newco alle cui dipendenze sarà chiamata solo parte degli 11000 lavoratori in forza. Quelli in esubero verranno lasciati nella “bad company” cioè l’Ilva in gestione commissariale con l’obbiettivo di una loro ricollocazione per le opere di bonifica. Opere quanto mai incerte, sia dal punto di vista della loro effettiva praticabilità che da quello della garanzia occupazionale. Nessuno può dimenticare che i commissari hanno  dichiarato che parte dei lavoratori posti in cassa integrazione non possono essere ricollocati in altre aree dello stabilimento a causa di una professionalità definita “incoerente”. Potranno quindi mai essere davvero impiegati nelle attività di bonifica ?

Produzione e profitti ai privati quindi, passività, veleni e esuberi al pubblico. L’unica possibilità è il ritorno della produzione di acciaio in mano pubblica. Nazionalizzare lo stabilimento per realizzare un nuovo grande progetto per la città. Solo l’intervento pubblico può garantire davvero il risanamento ambientale, il passaggio a tecniche produttive d’avanguardia e, se non fosse possibile,  la chiusura dello stabilimento e il reddito per tutti i lavoratori.

Coloro che si oppongono alla nazionalizzazione, in preda al furore liberista del privato è bello, si renderanno complici, speriamo di sbagliare, di una nuova vergognosa pagina della storia di questo paese. E’ giunto il momento, per Taranto, i suoi cittadini e i lavoratori dell’Ilva di riprendersi la parola, di lottare. Salute, ambiente, occupazione e reddito, facciamo della vertenza Ilva una battaglia per riconquistare il presente e il futuro che ci vogliono cancellare.

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