TARANTO – È trascorso qualche giorno ormai da sabato 25, da quando cioè, nell’ambito della manifestazione “Giustizia per Taranto”, tanti cittadini hanno marciato lungo le vie della città per dimostrare che una parte della società non è distratta su temi ambientali e civili e che segue con attenzione le vicende processuali del gruppo Ilva coinvolto nell’inchiesta “Ambiente Svenduto”.
Ho volutamente aspettato prima di scrivere un commento a margine della manifestazione per non lasciarmi influenzare soprattutto dalle emozioni che un evento del genere provoca in chi, come me e come tanti di voi, ha sempre creduto nella lotta partecipata e allargata.
Emozioni senz’altro positive quelle che ha trasmesso la marcia per la giustizia in chi da anni lotta contro la grande industria. Ci siamo ritrovati ancora una volta insieme – al netto di qualche presenza ipocrita – con qualche capello grigio in più o con occhiali che l’ultima volta non c’erano.
Ci si riconosce e ci si saluta, in qualche caso frettolosamente, in altri con vero piacere. Ci siamo quasi tutti, anche se è difficile tenere la conta precisa dei compagni di corteo. Tante le immagini che tornano in un collage mentale fatto di facce, striscioni, sorrisi, strette di mano e il tutto si fonde con spezzoni di ricordi più lontani di manifestazioni degli anni passati.
Gente spesso diversa per estrazione sociale, per cultura, per lavoro, per interessi, per condizione economica e per convinzione politica si ritrova unita nella presenza costante a questo tipo di iniziative che negli anni si ripropongono. Raggiungere la testa del corteo, farsi di lato e lasciarlo sfilare da capo a coda è un’esperienza che dà speranza e che rigenera la voglia di lottare anche in chi pensava ormai di arrendersi allo stato delle cose, alla prepotenza di chi ci impone una industria che impatta così tanto sulle nostre vite.
Un corteo aiuta soprattutto chi vi partecipa piuttosto che indebolire l’oggetto verso cui si protesta. Sentirsi parte di un gruppo che sfila per le tue medesime ragioni rende l’obiettivo della lotta più concreto e fattibile. Quel rigagnolo che normalmente si disperde nelle vie di Taranto e in particolare nei suoi quartieri più dimenticati, fatto di rabbia per la situazione di degrado ambientale, di angoscia per una sopravvivenza economica e sociale a cui tanti sono costretti, di dolore per le sofferenze fisiche e morali dei malati, a volte diventa fiume in piena che gli argini non tengono.
È un fiume che però non basta, non serve a cambiare lo stato delle cose; dopo la piena il fiume si prosciuga nel deserto di questa città e quell’unione di intenti e di cori nuovamente si scinde in mille voci isolate, spesso inconciliabili tra esse e divise da barriere fatte di ideologie e personalismi. Ecco quel che sottilmente mi turbava sabato scorso, al di là del piacere di stare con tanti amici e compagni di lotta.
Quanti tra i partecipanti al corteo saranno disposti ad ammainare non solo in corteo le proprie bandiere, a togliere gli steccati al proprio orticello e davvero agire insieme agli altri per rendere più efficace la lotta per liberare Taranto? Difficile dirlo considerando la forte tendenza alla polemica e alla voglia di protagonismo che caratterizza certi ambiti. La folta presenza di cittadini di ieri nell’aula del Tribunale di Taranto per un’udienza molto attesa del processo sul disastro ambientale causato dall’Ilva è, comunque, un buon segnale. Speriamo ne seguano tanti altri.
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