TARANTO – Sarebbe l’ora di fare i conti con la realtà. Toccherebbe ad uno Stato serio, responsabile e vicino ai cittadini prendere atto della necessità di cambiare programma e politica industriale per la nostra città. Dal 2012 uno stillicidio di decreti, azioni giudiziarie, dati sanitari non hanno fatto altro che confermare l’impossibilità di tenere in piedi un’industria ormai giunta al capolinea per ragioni di oggettiva incompatibilità ambientale e per ragioni di sostenibilità economica.
Quanto è costato allo Stato intestardirsi per garantire la produzione malgrado tutto? Perché cercare per forza di intraprendere la via della cessione ai privati che già è stata deleteria e fallimentare in precedenza? La politica delle toppe e dei rammendi non può funzionare ancora per tanto nella gestione di un colosso industriale delle proporzioni di Ilva. Non si può giungere alla vigilia di una possibile cessione ai privati senza ancora avere chiaro il progetto industriale complessivo che dovrebbe segnare i prossimi anni.
Decarbonizzazione, realizzazione delle misure AIA (con particolare riferimento alla copertura parchi minerali), bonifiche, quantità di acciaio da produrre, piano occupazionale, sono tutti aspetti assolutamente nebulosi e che lo Stato non chiarisce, dando l’impressione di una navigazione a vista pericolosissima. Tenere in attività una industria delle proporzioni di Ilva con le casse vuote, sperando che un qualunque giudice di Milano o di Losanna si pronunci favorevolmente rispetto ad un ardito e inusuale tentativo di patteggiamento dei Riva, è operazione azzardata e non degna di uno Stato credibile.
Dal 2012 ad oggi quanto tempo e denaro si è bruciato negli altiforni senza prevedere soluzioni alternative? Davvero è più conveniente puntellare la produzione di acciaio piuttosto che investire in attività alternative? Sindacati, sindaci dei comuni dell’area tarantina, rappresentanti istituzionali di Governo e Regione hanno mai effettuato analisi occupazionali particolareggiate? Quanti lavoratori potrebbero beneficiare di agevolazioni pensionistiche? Quale sarebbe l’impatto di una eventuale chiusura e riconversione nei vari comuni dell’arco ionico? Quale sarebbe l’investimento necessario per garantire una riconversione economica e un mantenimento degli attuali livelli di occupazione?
L’impressione è che mai alcuna di queste analisi sia stata fatta in modo serio e approfondito. Viene da chiederci il perché di questo. Le ragioni sono molteplici e si collocano sia in un contesto di scelte strategiche nazionali evidentemente prioritarie, sia nella incapacità del territorio di esprimere in modo adeguato la volontà di cambiamento. Sindaci che strizzavano l’occhio alla grande industria che garantiva occupazione e pace sociale e presidenti di Regione troppo dialoganti con i direttori generali non hanno riportato a Roma la realtà difficile di una convivenza industria-territorio che avrebbe richiesto soluzioni diverse.
Ed ora che i nodi vengono al pettine non è troppo tardi? Un sindacato messo di fronte alla richiesta di cassa integrazione per migliaia di lavoratori cosa propone adesso? Come si può pensare di mantenere i livelli occupazionali attuali con l’imprescindibile calo di produzione che il contenimento delle emissioni richiede? Erano questioni che si potevano affrontare prima con analisi e proposte che andassero oltre i soliti schemi di trattativa governo-sindacati, guardando oltre un futuro non per forza industriale.
Una città industriale ma non troppo, bloccata in buona parte nello sviluppo di altre potenzialità, che si troverà con poche migliaia di occupati nella futura Ilva e con tanti disoccupati in più a spasso: questo potrebbe essere il futuro a Taranto. Si parla ormai di una acciaieria che produrrà massimo 6 milioni di tonnellate di acciaio nei prossimi anni, occupando presumibilmente 6.000 lavoratori, provenienti dai diversi centri dell’arco ionico.
Si verificherà cioè quella situazione di compromesso che ci costringerà in un limbo di incertezza economica e sociale tragica, senza una vera svolta di risanamento ambientale ormai improrogabile. In un momento di scelte che potrebbero essere determinanti per i prossimi decenni, si tenga conto di tutto ciò: vale davvero la pena mettere l’ennesima toppa per mantenere in piedi un’industria che fu grande e che sarà ridimensionata, che occupava tanti e che lascerà migliaia di lavoratori a casa, che inquinava tanto e che (forse) inquinerà soltanto un po’ meno?
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