TARANTO – Autorevoli teorie economiche ci dicono che l’industrializzazione è sì deleteria per il territorio in cui inizialmente si sviluppa, ma che in seguito il sistema si autoregola nel senso di una auto protezione ambientale secondaria (Kuznets, premio Nobel per economia nel 1971). In una prima fase di industrializzazione, quando cioè da un’economia agricola si passa ad una economia industriale, l’ambiente risente necessariamente dell’impatto degli inquinanti e questo fino a quando i livelli di reddito pro capite non raggiungono un punto tale di benessere economico e sociale in cui l’attenzione per l’ambiente diventa esigenza sentita dalla popolazione.
A quel punto, la società metterà in atto tutte le misure necessarie affinché la produzione industriale migliori al punto di porsi in equilibrio con l’ambiente grazie a misure di riduzione delle emissioni inquinanti. Le economie più avanzate addirittura dematerializzano il processo economico-produttivo trasformandolo in qualcosa di diverso e creando PIL e lavoro attraverso economie digitali e sviluppo dei servizi.
La produzione industriale primaria viene trasferita quindi in Paesi in via di sviluppo nei quali l’attenzione per l’ambiente non è ancora una priorità e il prezzo dell’inquinamento viene meglio accettato dalle popolazioni locali. Escamotage utile ad allontanare dal centro cittadino di determinate nazioni alcuni tipi di inquinanti (anidridi solforose, diossine) non risolvendo però, tranne che in alcune città chiuse al traffico, il problema delle sostanze tossiche di origine veicolare e soprattutto trasferendo la questione ambientale ad un livello di attenzione globalizzato e meno impattante sulle società più ricche.
Inquinare quindi, ma lontano da casa, la soluzione purtroppo adottata dai Paesi più ricchi. Inquinamento e sviluppo economico due aspetti. purtroppo. strettamente collegati che fanno parte del naturale sviluppo delle società intese secondo modelli occidentali e capitalistici. Taranto ha esattamente percorso le prime tappe di questa teoria economica di sviluppo. Da un’economia povera, essenziale, legata alla terra e al mare, quale quella degli anni ’50, si è accettata (o imposta?) una trasformazione territoriale che prevedeva una massiccia industrializzazione con riconversione lavorativa della popolazione e con la nascita della classe operaia.
Un impatto ambientale elevatissimo: questg il prezzo pagato fin da subito dal territorio ionico a causa di questa scelta. Per quanto non vi siano analisi ambientali dettagliate e precise risalenti ai primi anni di industrializzazione come quelle più recenti, siamo certi che quella scelta portò un vero e proprio stravolgimento del territorio, paragonabile forse solo a quel che accade oggi in Africa o in alcune aree del Sud America e dell’Asia.
Dai filmati d’epoca possiamo osservare che intere aree, ettari ed ettari di territorio utilizzati in agricoltura e che contenevano uliveti, masserie secolari, sono stati da un giorno all’altro cancellati per dare spazio a quell’industria siderurgica che doveva portare benessere e sviluppo alla comunità. Una siderurgia ancora poco attenta all’impatto ambientale quella dei primi anni ’60, che portò necessariamente inquinamento e devastazione territoriale.
In cambio di ciò, migliaia di ex lavoratori della terra, spesso braccianti precari, trovarono posto nella grande industria che garantiva stipendi e tutele sociali elevando certamente le loro condizioni di vita. E di pari passo anche la crescita della città nel suo complesso evolveva verso un modello urbanistico meno provinciale.
In pochi anni Taranto raddoppia, in seguito alla svolta industriale, la sua popolazione, aumenta la superficie urbana e, in generale, migliora la vivibilità e l’offerta dei servizi ai cittadini. Fin qui nulla di anomalo rispetto a ciò che le teorie di sviluppo economico potevano prevedere. Il vero problema è che a Taranto come in gran parte d’Italia e particolarmente al Sud, al miglioramento dell’economia generale non è seguito un processo di ottimizzazione dell’impatto ambientale della grande industria.
Ancora fino a un decennio fa, il problema ambientale era considerato marginale rispetto ad altri. Lì dove altre città in Italia ed in Europa hanno impiegato la spinta economica per investire in protezione dell’ambiente e per sviluppare economie alternative, qui da noi è mancato, per varie ragioni, questo stimolo sia da parte delle istituzioni che della società civile. C’e da chiedersi quale meccanismo perverso abbia fatto mancare quella attenzione e cura per l’ambiente che il maggior benessere avrebbe dovuto stimolare.
Mancati controlli da parte delle istituzioni sono alla base del grave inquinamento ambientale causato dalla grande industria. Per decenni, l’industria, ma non solo essa, ha inquinato mari, terreni, falda e aria e causato, come tante analisi epidemiologiche ormai dicono chiaramente, aumento di patologie e mortalità. Quel processo di maturazione ecologista della società che aveva portato nelle altri Paesi europei sedi di grandi industrie siderurgiche (Lussemburgo, Germania, Francia) a riprogettare e ammodernare i processi produttivi, qui da noi non è stato considerato necessario.
Anzi, al contrario, altre attività industriali e non, impattanti su un territorio già fortemente compromesso, sono state sviluppate, non ponendo, evidentemente, al centro delle decisioni l’aumento dell’inquinamento. Istituzioni colpevoli senza dubbio di scelte discutibili e irresponsabili rientranti nella più generale politica nazionale per il Sud che guardava all’industria come potente mezzo di contrasto alla povertà e come unico strumento di sviluppo economico.
La salvaguardia dell’ambiente poteva, ancora fino all’altro ieri, aspettare. Ma la mancanza di attenzione e rispetto per l’ambiente si è manifestata non solo attraverso politiche di industrializzazione non controllata, originate da scelte politiche di carattere nazionale, ma anche attraverso scellerate politiche locali di cementificazione incontrollata e mancata lotta all’abusivismo.
Quel maggior benessere economico derivante dalla grande industria di cui una fascia di popolazione tarantina ha beneficiato è stato spesso mal investito sul territorio. Negli anni ’70 si è infatti verificata la corsa alla costruzione delle seconde case, soprattutto nelle aree costiere che sono state spesso deturpate in modo irreversibile. Economia industriale e cementificazione selvaggia hanno quindi caratterizzato almeno due decenni di storia del nostro territorio, tenendosi per mano in una combinazione devastante per l’ambiente di cui paghiamo oggi le peggiori conseguenze.
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