TARANTO – Quando lo Stato vuole fila come un treno: decide e nulla può fermarlo. Se per alcuni aspetti ciò può essere rassicurante e farci sentire certi della garanzia di difesa dei princìpi fondamentali della Costituzione (al netto di riforme poco probabili), per altri aspetti e in determinate circostanze, il potere di decidere “a prescindere” non ci piace. Taranto ha la sfortuna di essere città strategica per i piani di sviluppo e difesa nazionale.
Non c’è governo che tenga. Qui tutto deve restare così, immutabilmente fermo. L’acciaio nazionale si deve produrre per forza qui da noi, il petrolio dovrà sbarcare in riva allo Jonio, i piani di difesa nazionale prevedono che la Marina occupi una gran parte delle nostre aree costiere. Una città forse sfortunata per la posizione geografica o per l’ignoranza o l’incapacità di chi la amministrava perché non in grado di comprendere ciò che sarebbe diventata, facendola giungere a questo punto di occupazione e sfruttamento territoriale permanente.
A puntellare questo stato di cose ci sono poteri troppo forti per concedere vittorie a chi si oppone al sistema attuale: banche, multinazionali, Confindustria, sono tutte compatte per bloccare qualunque progetto di cambiamento. Un piano strategico che ha rischiato per poco di crollare nel 2012, sotto la pressione delle proteste popolari e delle azioni della magistratura, ma che immediatamente, scavalcando diritti collettivi e prassi ordinarie di pubblica amministrazione e giurisprudenza, lo Stato ha puntellato a qualunque costo – economico, sociale e morale – tenendo in piedi un castello che mostrava crepe da tutti i suoi lati.
Quella vittoria che sembrava così vicina da parte delle forze ambientaliste e dei tanti cittadini indignati da una occupazione ingiusta e prepotente, è stata evitata utilizzando qualunque mezzo (lecito?) che sfruttava la forza degli ormai innumerevoli decreti che ci è toccato subire passivamente e che probabilmente continueranno a puntellare questo stato di cose per chissà quanto tempo ancora. Perfino l’aspetto sanitario e in particolare l’aumento di rischio per la popolazione, tema che secondo alcuni sarebbe stato sufficiente a far cambiare i piani strategici nazionali, non è stato abbastanza motivante per chi teneva le leve del potere.
Lotte, proteste, convegni, proposte, dati, analisi, previsioni, si scontrano contro il muro incrollabile dello stato delle cose, più forte di qualunque ragione del cambiamento. Siamo tutti stanchi, sfiancati e molti di noi demoralizzati e, in più, disuniti. Persino un appuntamento importante, decisivo per le sorti della città, quale quello delle prossime elezioni amministrative, rischia di scivolar via senza appassionare troppo i cittadini, almeno a giudicare dalla scarso interesse che si percepisce fino a questo momento.
Questo malgrado l’elevato numero di possibili candidati sindaco di cui si parla che sembrano essere, in alcuni casi, espressione di parti non comunicanti della popolazione e che si propongono rendendosi incompatibili a qualunque tentativo di unità. Le ragioni di ciò andrebbero forse indagate con sedute di psicoanalisi collettiva, soprattutto alla luce dei programmi elettorali che, in alcuni casi, saranno certamente molto simili, addirittura in buona parte sovrapponibili. Ma questo è lo stato delle cose e qualcuno forse ne trarrà gioia perché la locuzione latina “divide et impera” resta sempre attuale.
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