«È stata una splendida esperienza: non solo perché ho imparato come lavorare la pasta, ma anche perché ho scoperto qualcosa in più su questo Paese e sulla sua cultura». Parla piano e a volte incespica sull’italiano Mbenkunting SIllah, uno degli ospiti dello Sprar «Taranto oltre confine». Sorride insieme ai compagni che hanno terminato il corso per «panificatore» e in attesa di ricevere l’attestato si racconta.
«Ho 19 anni e vengo dal Gambia…». È emozionato Sillah: «Sì, mi chiamano per cognome – spiega sorridendo – perché il mio nome è troppo difficile da pronunciare». Per tutto le 5 settimane di corso è stato semplicemente Sillah: «Mi è piaciuto davvero questo corso: ho fatto un sacco di cose che non ha avevo mai fatto prima. Ho imparato alcune tecniche che ora posso fare da solo. Come la focaccia: è una delle cose che mi piace di più. Ma al di là della tecnica, ho scoperto qualcosa di nuovo sul modo di vivere dell’Italia e questo mi aiuta a capire meglio il posto dove sto ricostruendo il mio futuro magari facendo proprio pane e focaccia: è un lavoro divertente».
Intanto Hassen Chiha e Mariella Asaro, coordinatori del progetto «Taranto oltre confine» iniziano la consegna degli attestati: «Questo è solo l’ultimo percorso che il progetto gestito da Caritas e Programma Sviluppo ha portato a termine: solo nell’ultimo triennio sono oltre 100 gli ospiti dello Sprar ai quali abbiamo offerto occasione di inserimento nella società italiana attraverso corsi di lingua, sicurezza sul lavoro e una serie di altri percorsi formativi. Sono esperienze che aiutano a capire il Paese in cui si trovano e al quale possono offrire un contributo significativo attraverso la capacità di offrire le loro conoscenze anche attraverso la rosticceria: abbiamo preparato in queste 30 ore di corso il pane speziato con la curcuma, il «khobz asfar» con i prodotti italiani: è stato una grande successo».
Accanto a lui anche Abubakr Rasul Hamad, iracheno di 27 anni, conferma: «Sì, è vero è divertente». Abu, come lo chiamano tutti, dopo aver lasciato il suo Paese, ha lavorato in Norvegia per 6 anni come panettiere: «Sì, sembra la stessa cosa, ma non è lo è: lì facevo solo il “pane turco”, ma qui è diverso. Ovviamente – racconta inseguendo i ricordi scalfiti dai viaggi della speranza che ha dovuto affrontare prima di arrivare a Taranto – la procedura è simile, ma i sapori sono differente. E anche le attrezzature non sono uguali: i forni erano più grandi perché i consumi erano differenti mentre in Italia sono più piccoli: c’è una cultura più casereccia e meno industriale del pane». L’infanzia in Iraq, l’esperienza norvegese e poi l’arrivo in Italia. Per Abu’ il sogno è di trasformare tutto questo bagaglio in sapori: «Mi piacerebbe provare a miscelare i sapori arabi con quelli italiani. Credo che verrebbe fuori un pane unico che sappia unire le storie di Paesi differenti dando vita a qualcosa di profondamente gustoso. Proprio come l’integrazione».
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