Taranto e il mistero degli “argenti Cacace”: dov’è finito il tesoretto?

TARANTO – Abbiamo affrontato in un precedente articolo (leggi qui) il tema dei reperti archeologici, spesso di rilevante interesse, provenienti da Taranto e sparsi in vari musei del mondo. Tale fenomeno derivava da una mancanza di leggi che in particolare tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento tutelassero il patrimonio archeologico impedendone la vendita a collezionisti e musei. Solo nel 1939, con la Legge 1089 del 1 giugno (leggi qui), lo Stato cercò di porre fine a tale commercio che, soprattutto nel Meridione, disperdeva un patrimonio storico e culturale di importanza universale.

Taranto, fino ad allora, insieme a Napoli e Roma, era stata l’El Dorado per i trafficanti di oggetti antichi e per gli antiquari. Ciò che veniva recuperato durante gli scavi per la costruzione del Borgo e in generale in qualunque sottosuolo diventava legittima proprietà del titolare del terreno. Lo Stato poteva al massimo, tramite i suoi rappresentanti, proporre l’acquisto dei reperti più interessanti, ma senza alcuna imposizione. Molto spesso la proposta di acquisto veniva rifiutata poiché il commercio con gli antiquari e con i collezionisti rendeva molto di più. La legge del 1939 istituì l’obbligo di confisca dei reperti archeologici a fronte di un risarcimento fino ad 1/4 del valore ai proprietari dei suoli in cui si trovassero appunto i beni sequestrati.

Ma, purtroppo, il danno era stato ormai compiuto. Tantissime testimonianze archeologiche avevano già preso strade lontane da Taranto e molte di queste, dopo intricate vicende e passaggi di mano, spesso le ritroviamo in vari musei del mondo che sono stati ben attenti a recuperarle e valorizzarle nelle loro sale espositive. Vogliamo però soffermarci su una di queste vicende in particolare poiché è ben documentata ed emblematica di quale fosse, nei secoli scorsi, il modo di gestire i beni archeologici ritrovati. Ci occuperemo degli “argenti Cacace”, un tesoretto ritrovato nel 1896 in via Principe Amedeo angolo via Anfiteatro nel corso dei lavori di sterro di un terreno.

Carlo Cacace era un commerciante, imprenditore (fondatore della Voce del Popolo nel 1884) e grande proprietario terriero; gran parte dei suoli su cui si innalzarono i palazzi del Borgo a fine ‘800 erano di sua proprietà. Cacace era un esperto di reperti e ne faceva commercio soprattutto con gli antiquari di Napoli. Nei passaggi di proprietà dei suoi terreni si specificava sempre che qualunque ritrovamento di reperti avvenuto successivamente alla vendita doveva essere a lui consegnato che ne restava legittimo beneficiario. La vita di Carlo Cacace, per inciso, si intrecciò paradossalmente proprio con un rappresentante dello Stato, il prof. Luigi Viola, che era a Taranto per cercare di censire e tutelare il patrimonio archeologico.

Quest’ultimo, infatti, come riportano le cronache di allora, nel 1885 sposò proprio Caterina, la figlia di Carlo Cacace. Un difensore del patrimonio archeologico che quindi si imparentò proprio con chi col commercio di reperti faceva grandi affari. Questo nulla tolse ai grandi e meriti di Luigi Viola a cui si devono importanti scoperte archeologiche quali quelle della cinta muraria nei pressi del Mar Piccolo e della Cripta del Redentore, oltre che al suo adoperarsi per la nascita del museo archeologico, un embrione di ciò che poi diventerà l’attuale MarTa. Ma nulla poteva fare Viola, proprio per la mancanza di leggi e forse perché il commercio di reperti era prassi, per fermare il suocero nei suoi affari.

In un eccezionale documento, pubblicato nel Bollettino “Notizie degli scavi” del 1896 dell’Accademia dei Lincei, G. Patroni racconta le circostanze del ritrovamento del tesoro e ne riporta una sua dettagliata descrizione. Si legge tra l’altro: “La sera del 9 settembre (1896 ndr), quando era per cessare il lavoro, gli operai addetti alla sistemazione della via Principe Amedeo, al Borgo nuovo, nell’eseguire uno sterro, avanti la casa Martorano, rinvennero un tesoretto di vasi d’argento. Il terreno, che ora si è abbassato, per portarlo a livello del piano regolatore, apparteneva al sig. Carlo Cacace, che nel cederlo fece espressa riserva degli oggetti archeologici reperibili.

Non potendosi per l’ora tarda lasciare tutto sul posto, così come era stato rinvenuto, i vasi di argento furono immediatamente, per cura dello speciale incaricato del sig. Cacace, nè forse con tutte le precauzioni possibili, presi e trasportati allo studio commerciale del sig. Cacace medesimo. Trovandomi in Taranto per una missione affidatami da S.E. il Ministro, ebbi premura di recarmi la mattina appresso allo studio del sig. Cacace, ove in assenza di lui, il suo socio sig. Augusto Roncalli mi mostrò cortesemente il fortunato trovamento, e si mise gentilmente a mia disposizione affinché io e il soprastante E. Caruso, che mi accompagnava, potessimo ripulire alla meglio della terra gli oggetti, ed esaminarli. Fu anche interessato il proprietario a concedere il permesso di prendere fotografie dei pezzi rinvenuti, le quali, secondo le disposizioni date dal sig. Cacace, furono eseguite dal fotografo sig. R. de Liguori di Taranto”.

Segue una precisa descrizione degli argenti ritrovati a cui rimandiamo nel link sottostante e si conclude: “Le forme, gli ornati, la scelta dei soggetti ed il gusto dell’esecuzione, ci conducono ad un tempo che dall’età ellenistica può scendere sino alla romana. Ma le condizioni del trovamento escludono la relazione con lo strato romano. Gli oggetti descritti sono stati rinvenuti tutti insieme, a m. 0,50 sotto un forte pavimento romano di grossolano mosaico (comunissimo nel borgo di Taranto), il quale ricopriva il sottosuolo per più metri in ogni senso, e non poteva essere stato costruito se non da chi ignorava l’esistenza degli argenti quivi appunto sepolti.

Non v’era traccia di volta o d’altra costruzione sottostante al pavimento, che potesse far supporre trattarsi di una specie di cantina che servisse di ripostiglio all’abitazione romana. È anzi da tener conto del fatto che sullo strato romano il detrito di tanti secoli non aveva accumulato se non altri 60 soli cm di terra. A me pare dunque trattarsi piuttosto di un tesoretto seppellito nell’età ellenistica, dentro qualche cesta o cassetta di legno che l’azione del tempo e dell’umido ha distrutta. Certo lo stile delle figure, specialmente nei medaglioni dei piatti, è ancora così nobile che non disconverrebbe neppure alla fine del secolo IV avanti l’era volgare”. (leggi qui)

La vicenda descritta è davvero emblematica di quanto poco lo Stato facesse per tutelare reperti tanto importanti. Infatti, ricevuta la relazione di cui abbiamo proposto qualche stralcio, il Ministero dei beni culturali offrì la cifra di 20.000 lire per l’acquisto degli argenti a Carlo Cacace che rifiutò riuscendo a ricavarne 104.000 da un antiquario di Napoli. Da Napoli , crocevia dei reperti del Meridione, gli argenti finirono al barone Edmond de Rothschild in una sua collezione privata. Alcune fonti riportano che gli argenti siano stati poi donati al Louvre di Parigi ma la notizia non è per nulla certa.

Abbiamo chiesto notizie alla prof.ssa Giovanna Bonivento Pupino, esperta in argenti Tarantini che purtroppo ci conferma che del “tesoro Cacace” si sono perse completamente le tracce. Ella stessa ha avuto modo di recarsi al Louvre e di chiedere notizie di questi importanti reperti alla Direzione che ha però dichiarato di non esserne mai entrata in possesso, smentendo così notizie pubblicate in Italia al riguardo. Nulla esclude che prima o poi gli argenti torneranno a galla in qualche collezione o museo, ma per ora il mistero resta e con esso il rammarico per ciò che Taranto si è vista sottrarre della propria storia antica. E magari questo articolo riuscirà a farci scoprire la verità. Chi è in possesso di elementi utili a svelare l’arcano può contattarci qui: info@inchiostroverde.it.

Giuseppe Aralla

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