Quando Anastasia Nikolaevna, granduchessa russa, di appena tredici anni, agli inizi del secolo scorso decise di scattare una foto della sua intera persona riflessa in uno specchio, di certo, non avrebbe mai immaginato le conseguenze “planetarie” che avrebbe prodotto quel suo primo, piccolo e innocuo gesto che diventò poi ben presto, anche per lei, una mania.
E’ proprio da qui che si fa partire la storia e l’evoluzione di quello che una volta veniva definito semplicemente “autoscatto”. Era un modo per ritrarsi, in particolari situazioni in assenza soprattutto di altre persone che avrebbero potuto scattare una foto. Tuttavia, il cosiddetto autoscatto, pur essendo andato avanti per tanti decenni, non ha mani trovato una sua grossa notorietà e fortuna. Viveva e sopravviveva solo in virtù della sua utilità. Tutto poi cambiò con la nascita del termine “selfie”, coniato pare intorno al 2005 ma divenuto termine ufficiale, inserito anche nella versione on line del dizionario Oxford English solo in questi ultimissimi anni.
Il “selfie”, come tutti sappiamo, è ormai una moda dilagante e non solo tra i più giovani. E sarà per il termine inglese o per Facebook e per tutti gli altri social network, che sicuramente aiutano a diffondere ogni nuova tendenza, ma la voglia di autoritrarsi spopola e svela anche, a mio avviso, un dilagante bisogno inconscio di esserci, di rendersi visibili a se stessi, di riconoscersi, di autoidentificarsi.
Non è un caso che si finisce per ritrarsi in ogni situazione possibile e impossibile, persino in bagno o a letto in pigiama, in bilico su un cornicione e accanto al primo sconosciuto fermato appositamente per strada. E per facilitare il compito di tale frenetica attività c’è chi si è ingegnato a produrre, con grande successo, delle estensioni meccaniche che permettono uno scatto più a distanza e quasi perfetto, proprio come se ci fossero le mani di qualcun altro a farlo. Dunque, come non porsi qualche domanda e non analizzare più a fondo il fenomeno?
In questa fase storica di ampissima espansione dei social, di internet, di smartphone e tablet, sempre più complessi, che richiedono costante attenzione e dedizione, stiamo vivendo una forte spersonalizzazione. Proprio mentre pensiamo di essere più connessi, in realtà diveniamo sconnessi, ma non solo dagli altri anche e forse soprattutto da noi stessi. Fatichiamo a capire chi siamo, dove siamo e dove andiamo. E in questo contesto, allora, il “selfie” diviene la naturale estrinsecazione del bisogno di ritrovarsi ma purtroppo continuando a mantenere un distacco inquietante dal nostro prossimo che poi è colui che da sempre può, sia nel bene che nel male, offrirci l’occasione del confronto costruttivo con noi stessi.
Persino l’estensione meccanica per un “selfie” più adeguato rappresenta la negazione dell’altro. Anziché chiedere molto più semplicemente a qualcuno di scattare una foto per noi, ci affidiamo ancora una volta a un oggetto inanimato, tendiamo, ancora e sempre più persistentemente a scollegarci da chi ci circonda. Ma il fare da sé, in questo caso, non diventa un “fare per tre” bensì, un annullamento ulteriore del contatto umano, della socialità, proprio di quella socialità che i social fingono invece di promuovere.
L’auto riconoscimento viene così affidato sempre e soltanto a se stessi e ad un fermo immagine che ci rappresenta nei vari momenti della nostra vita per ricordarci che esistiamo, che siamo ancora qui, che abbiamo un volto e un sorriso, che siamo in grado di avvicinare qualcuno e vivere in comunità, anche se solo per l’attimo del click. È così che, scatto dopo scatto, ci autodelineiamo un’identità.
Siamo quelli che leccano il gelato, quelli che hanno visitato il tal museo – tanto non è poi necessario entrarci, basta avere la facciata dell’importante edificio alle nostre spalle – e siamo quelli che baciano, bevono una birra e mangiano crepes, che hanno le unghie del piede laccate in verde pisello e quelli che vogliono ricordarsi del proprio tatuaggio sulla natica. Ma il processo di costruzione di un’identità individuale e sociale è ben altro e parte dal di dentro, proprio da quel di dentro che tentiamo in ogni modo di sfuggire, annullare e non conosciamo più, anzi, forse crediamo ormai di non avere più o peggio di non avere mai avuto.
E allora, facciamoci meno “selfie” e confrontiamoci un po’ di più, parliamo di noi, di ciò che sentiamo, pensiamo, vogliamo e chiediamo all’altro chi è, cosa fa, come si sente. Sforziamoci di ricordare meno in che modo vestivamo in quella data occasione e ricordiamoci maggiormente in che modo ci sentivamo. Ritraiamo meno la nostra pelle e la nostra immagine esteriore e costruiamo di più la nostra identità interiore, perché è la sola di cui abbiamo bisogno e che ci accompagnerà per tutta la vita, permettendoci di stare bene o stare male, di essere ricchi o poveri, di avere amici o di essere soli.
Psicologa – Scrittrice
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