Questo articolo vuole essere il primo di una serie di appuntamenti informativi a cura di Inchiostroverde.it che ci accompagneranno fino al referendum costituzionale di ottobre. Quel voto rappresenterà uno dei momenti più importanti dei settant’anni della Repubblica e grande sarà la responsabilità di chi parteciperà alle consultazioni nell’indicare il proprio SÌ o NO alla riforma renziana.
Il referendum, che non richiede quorum partecipativo, promuoverà o boccerà le modifiche alla Costituzione approvate dal Parlamento. Il tema su cui votare non è semplicissimo e, per questo, merita un approfondimento particolare. In questi giorni assistiamo ad un martellante tentativo delle forze di maggioranza di sostenere le ragioni del SÌ, favorite da una informazione che in qualche caso, purtroppo, a livello nazionale, si mostra piuttosto cortigiana.
L’argomento principale con cui Renzi e la ministra Boschi intendono convincere l’opinione pubblica ad accettare la riforma costituzionale è soprattutto legato al taglio di 215 senatori e al conseguente risparmio che ne verrà per le casse statali. In un momento in cui i partiti e i loro esponenti non godono certo di grande stima nell’opinione pubblica, questo argomento trova sicuramente grande favore e, se tutto il senso della riforma fosse ridotto solo al taglio delle poltrone, il governo avrebbe gioco facile nella consultazione di ottobre.
Ma, chiariamo subito, il risparmio è soltanto uno specchietto per le allodole a cui noi cittadini (che allodole non siamo) non dobbiamo credere. Il risparmio effettivo, per la riduzione del numero di senatori, sarà di circa 100 milioni di euro su oltre 500 del bilancio complessivo del Senato che resterà in vita nel suo lussuoso Palazzo Madama con i suoi 677 dipendenti e relativi ottimi stipendi. Un risparmio, quindi, di circa il 20% del totale. Basta questo a giustificare una riforma che incide in maniera importante nel funzionamento delle istituzioni repubblicane?
I sostenitori del SÌ a queste critiche ribattono che il risparmio non è il solo obiettivo della riforma che intende garantire soprattutto una maggiore rapidità nell’approvare le leggi, superando di fatto il ping pong tra Senato e Camera dei Deputati a cui spesso abbiamo assistito. Questa motivazione può facilmente essere messa in discussione indicando, nel modello attuale con le due Camere, la garanzia di una visione delle proposte di legge più accurata: una Camera può, infatti, modificare e migliorare una legge, correggendo eventuali errori o sviste.
Con la riforma, invece, il Senato, che sarà formato da Senatori scelti tra gli eletti delle consultazioni regionali, si occuperà esclusivamente di politiche comunitarie, di Europa e di enti locali. Potrà eleggere due Giudici Costituzionali. Viene poi modificato il Titolo V della Costituzione che regola i poteri di intervento dello Stato rispetto alle istituzioni locali. Viene ridotta in maniera sostanziale la possibilità da parte delle Regioni di legiferare autonomamente e viene ribadito il principio secondo cui, tra leggi regionali e statali, sono queste ultime a prevalere e che, comunque, spetta allo Stato l’ultima decisione su questioni di interesse strategico. Modifica questa che induce a farci temere un controllo del potere a livello centrale sempre più rilevante, lasciando pochi margini alle istituzioni locali per governare i propri territori con politiche diverse da quelle governative.
Altri aspetti della riforma riguardano l’aumento del numero di firme da raccogliere per le proposte di legge di iniziativa popolare che passano da 50.000 a 150.000 e l’elezione del Presidente della Repubblica e della Corte Costituzionale. Fin qui, in sintesi, la riforma costituzionale e su questa dovremo esprimerci con un SÌ o con un NO, valutando i pro e i contro che essa introduce nel funzionamento della macchina statale. Ma non possiamo valutare la riforma Renzi – Boschi senza tenere conto che è entrata in vigore, nei mesi scorsi, per le elezioni della Camera dei Deputati, la nuova legge detta Italicum.
Nel 2005 era stata approvata la Legge Calderoli, definita Porcellum dai suoi critici, che sostituiva il Mattarellum. Con questa legge sono stati eletti i rappresentanti in Parlamento di tre legislature, 2006, 2008 e 2013. Essa prevedeva un premio di maggioranza per la coalizione o per il partito che avesse raccolto più voti e soprattutto le liste bloccate. Diveniva Deputato e Senatore chi era nelle prime posizioni delle liste elettorali e i cittadini, che potevano indicare sulla scheda solo il partito, non potevano, di fatto, eleggere i propri rappresentanti in Parlamento.
Nel dicembre 2013 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la Legge Calderoli, criticando l’eccessivo premio di maggioranza alla coalizione vincitrice e i listini bloccati che avevano determinato l’elezione di un Parlamento di nominati. La nuova legge elettorale voluta da Renzi è appunto il cosiddetto Italicum. Essa prevede che il partito (non la coalizione) che raccolga il 40% dei voti governi con un premio di maggioranza del 15%, raggiungendo così il 55% dei seggi alla Camera dei Deputati. Se nessun partito dovesse raggiungere il 40% delle preferenze, andrebbero al ballottaggio al secondo turno i due partiti col maggior numero di voti e chi ne uscisse vincitore otterrebbe ugualmente il 55% dei seggi.
Questo garantirebbe sicuramente una maggioranza solida che non avrebbe più bisogno di alleanze con altri partiti. Una metà circa dei deputati sarebbe inoltre scelta (nominata) dai partiti col meccanismo dei capolista che verrebbero automaticamente eletti nel collegio di appartenenza. Riforma elettorale e costituzionale creano un mix che rischia di incidere in modo importante sulle regole democratiche della Repubblica per come le abbiamo finora conosciute. La democrazia in Italia si regge sulla partecipazione dei cittadini al voto per eleggere i propri rappresentanti in Parlamento e sull’equilibrio dei tre poteri: Legislativo, Esecutivo e Giudiziario. Essi sono indipendenti l’uno dall’altro e nessuno prevale sugli altri.
Al Parlamento e, per alcune materie, alle Regioni spetta il potere di legiferare (Potere Legislativo), al Governo il potere di farle rispettare anche grazie al controllo delle forze dell’ordine (Potere Esecutivo) e alla Magistratura il potere di giudicare in base alle leggi approvate (Potere Giudiziario). L’indipendenza dei tre poteri è garanzia del fatto che nessuno di essi può prevalere sull’altro. Queste riforme, a parere di tanti autorevoli costituzionalisti, da Gustavo Zagrebelsky a Paolo Francesco Casavola, da Antonio Baldassarre a Cecilia Corsi, non convincono.
Esse hanno certamente del buono in alcuni punti specifici (minore possibilità del Governo di adottare Decreti Legge, riduzione dei tempi per approvare una legge) ma, cioè che non convince è l’inadeguatezza del Senato che uscirebbe troppo indebolito dalla riforma e dall’impossibilità che deriverebbe, con la modifica del Titolo V, alle Regioni di legiferare. I più pessimisti vedono nella riforma addirittura il rischio di una deriva autoritaria, grazie alla combinazione con la nuova legge elettorale: lo Stato, a loro dire, sarà nelle mani di un solo partito che avrà la maggioranza assoluta in Parlamento pur senza essere, con grande probabilità, la maggioranza nel Paese.
Esso non dovrà più cedere a compromessi o cercare alleanze per fare approvare le proprie proposte di legge. La maggioranza avrà più forza per eleggere Presidente della Repubblica e componenti della Corte Costituzionale. In definitiva, il Potere Esecutivo prevarrà sugli altri Poteri dello Stato, minando quell’equilibrio tra poteri che, dalla fondazione della Repubblica, garantivano la tenuta democratica dell’Italia. Non bisogna, quindi, sottovalutare le conseguenze della riforma costituzionale, abbinata a quella elettorale e sarà importante arrivare ad ottobre ben informati su come cambierà la democrazia in Italia in caso di vittoria del SÌ.
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