Impatti da attività petrolifere: ecco cosa rischiano i nostri mari
Il 17 aprile 2016 ci sarà il Referendum NoTriv. È necessario che tutti i cittadini esprimano parere positivo e votino “Sì” non solo per abrogare (cancellare) la norma specifica che fa durare le autorizzazioni di utilizzo dei giacimenti in mare entro le 12 miglia per tutta la durata di vita del giacimento stesso, ma anche e soprattutto per lanciare un forte e chiaro messaggio contro la politica energetica italiana radicata ancora sullo sfruttamento sfrenato dei combustibili fossili che oltre a produrre impatti gravissimi sull’ambiente e sulla salute, contribuisce in modo rilevante al surriscaldamento globale e alle disastrose modificazioni climatiche ormai sotto gli occhi di tutti.
Tornando al tema specifico, il Golfo di Taranto è stato preso di mira da varie compagnie petrolifere che hanno già da tempo richiesto il permesso di procedere alla prima e distruttiva fase di prospezione mediante air-gun per individuare i giacimenti di idrocarburi nel sottofondo marino a largo delle coste pugliesi, lucane e calabresi. Gli air-gun producono esplosioni violentissime ripetute ogni 10 secondi, 24 ore su 24, per l’intera durata di una campagna di prospezione che in genere si protrae per vari mesi e interessa aree marine vaste centinaia di chilometri quadrati.
Queste esplosioni che raggiungono livelli sonori impressionanti pari a 260 decibel (un rumore simile è difficile da immaginare, ed è migliaia di volte superiore di quello prodotto dal motore di un jet), inducono danni gravissimi ai mammiferi marini danneggiando spesso in modo irreversibile il loro delicatissimo apparato uditivo necessario ad orientarsi sott’acqua. Senza la possibilità di orientarsi i cetacei, già rari e a rischio estinzione in tutti i mari del pianeta, tendono a spiaggiarsi e a morire dopo una terribile agonia. Anche le tartarughe marine e i pesci subiscono gravi danni dalle esplosioni degli air-gun. Le larve dei pesci che si trovano nelle vicinanze degli air-gun non sopravvivono alle esplosioni. Questa evidenza mostra quanto sia disastroso l’impatto delle ricerche petrolifere sugli stock ittici, anche quelli di interesse commerciale che sostengono le attività di pesca locale.
Dopo aver sondato i fondali marini, se dovessero esserci giacimenti petroliferi, si procederebbe alla perforazione dei pozzi e alla successiva costruzione degli impianti estrattivi. La perforazione prevede l’utilizzo di fanghi di perforazione, composti in genere da bentonite (un tipo di argilla) o da polimeri speciali la cui composizione è ignota perché protetta da segreto industriale. Durante la prima fase di perforazione (detta riserless) sia i fanghi che i detriti non vengono recuperati. Migliaia di metri cubi di fanghi e detriti vengono rilasciati nell’ambiente marino. Questa enorme mole di materiale induce la distruzione della comunità marina presente sul fondo, oltre all’aumento significativo della torbidità e della concentrazione di alcuni inquinanti pericolosi come i metalli pesanti (tra cui anche il mercurio) che diventano biodisponibili e vengono bioaccumulati dagli animali marini.
Alla attività di trivellazione è legato anche l’aumento del rischio sismico. Evidenze scientifiche hanno dimostrato la relazione esistente tra le trivellazioni e l’aumento dei sismi di magnitudo medio-bassa. E questo è tanto più grave se si considerano le caratteristiche geologiche del Mar Ionio che si trova sulla linea di contatto tra le due placche del Mediterraneo, la placca euroasiatica e quella africana. Inoltre, sul versante calabrese sono presenti numerose faglie attive e un gigantesco corpo franoso che si estende per oltre 1000 km² davanti la costa di Crotone.
Anche durante il normale esercizio di estrazione di una piattaforma petrolifera avvengono continuamente fuoriuscite di petrolio in mare, e vengono scaricate le acque di lavaggio e i rifiuti prodotti sull’impianto. Inoltre, per aumentare la produttività della roccia serbatoio si interviene spesso acidificandola e iniettando soluzioni acide ad alta pressione. A questo si aggiunge che le piattaforme petrolifere sono soggette a incidenti disastrosi che prendono il nome di blowout e che consistono nella fuoriuscita incontrollata e prolungata di enormi quantitativi di petrolio. L’incidente più grave che si sia mai registrato è stato quello avvenuto nel 2010 nel Golfo del Messico.
Lo sversamento di petrolio dalla piattaforma della British Petroleum (Deepwater Horizon) durò 106 giorni consecutivi ed è stato quantificato in oltre 1.000.000 di tonnellate distribuite su un’area marina di 8000 miglia quadrate (l’area del Golfo di Taranto è pari a circa 4000 miglia quadrate!). Molteplici sono anche gli impatti generati dal trasporto del petrolio in mare che avviene negli oleodotti o con le petroliere: dalla rottura di condotte sottomarine agli incidenti rilevanti a carico di petroliere, dagli sversamenti accidentali durante le operazioni di carico/scarico ai terminali a quelli volontari durante le operazioni di lavaggio delle cisterne, quest’ultimi vietati dalla Convenzione Marpol 73/78 ma purtroppo ancora effettuati in modo illecito.
I rischi ambientali legati al traffico di petroliere riguardano da vicino Taranto e il Mar Grande. Grazie al progetto Tempa Rossa, il traffico petrolifero aumenterà notevolmente nel nostro mare. Si prevedono 90 petroliere in più all’anno che si andranno ad aggiungere alle attuali. Con l’aumento del numero di petroliere, aumenterà notevolmente anche il rischio di incidenti rilevanti e di sversamenti di petrolio che provocherebbero danni incalcolabili nel Mar Grande, un mare chiuso su tutti i lati, e delimitato dalle meravigliose Isole Cheradi che dovrebbero divenire Area Marina Protetta, e dalle due scogliere artificiali che partono rispettivamente da San Vito e da Punta Rondinella.
Una volta in mare il petrolio produce impatti gravissimi su ecosistemi e organismi. La porzione più pesante tende a precipitare sul fondale marino ricoprendo vegetali e animali. Le specie più sensibili tendono a scomparire e gli habitat più vulnerabili perdono le loro caratteristiche e risultano impoveriti. La porzione del petrolio che raggiunge le aree costiere mostra un differente comportamento in relazione al tipo di costa: sulle coste rocciose il petrolio si solidifica e crea uno strato catramoso mentre su quelle sabbiose impregna il sedimento sciolto. I delicati ambienti lagunari (come il Mar Piccolo di Taranto) mostrano i danni peggiori e i tempi di recupero sono lunghissimi, dell’ordine di 5-10 anni. Per alcuni ricercatori anche dopo 20 anni, gli ambienti invasi da una marea nera non tornano più ad essere come prima.
Gli effetti a breve termine di una marea nera sugli animali marini sono disastrosi. Il totale ricoprimento fisico impedisce la respirazione, l’alimentazione e la termoregolazione. Ogni animale, dagli invertebrati ai pesci, dai rettili ai mammiferi marini e agli uccelli, muore in breve tempo. Gli animali che sopravvivono tendono ad assorbire e accumulare gli idrocarburi nei loro tessuti e nei loro organi. Ciò induce effetti subletali che vanno dalle deformazioni larvali alle disfunzioni a livello endocrino, dalla depressione del sistema immunitario all’insorgenza di tumori.
Gli effetti negativi sulla salute riguardano anche gli esseri umani che si alimentano di animali contaminati (molluschi, crostacei, echinodermi e pesci). Gli idrocarburi più pericolosi sono gli IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici) che tendono ad accumularsi nei tessuti adiposi. Una volta entrati nell’organismo, gli IPA vengono convertiti da particolari enzimi in composti più reattivi che tendono a legarsi al DNA e a indurre mutazioni. Gli animali e gli uomini esposti a IPA presentano una predisposizione all’insorgenza di forme tumorali. Questo quadro avvilente dimostra come ogni attività antropica legata al petrolio generi danni incalcolabili all’ambiente, agli animali e agli esseri umani.
Rossella Baldacconi, PhD in Scienze Ambientali
La foto in alto è della dott.ssa Baldacconi; le altre due sono tratte dal sito http://dorsogna.blogspot.it/2012/04/due-anni-dopo-il-golfo-del-messico-20.html
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