Ilva, i sindacati e il coraggio di cambiare
Ambientalizzazione è la parola che più ricorre nelle dichiarazioni dei rappresentanti sindacali che portano avanti la vertenza Ilva. E si fa fatica, in qualche caso a non confonderli per esponenti di Confindustria. È un sindacato che spesso sa di vecchio quello che rappresenta i lavoratori; tende a rafforzare le barriere tra chi vive all’interno della fabbrica e chi fuori. Sembra la difesa, quella rappresentata, di una posizione indiscutibile. Non esiste alternativa, non c’è possibilità di un piano b. Nessuna uscita da questo vicolo cieco, da questa economia malata.
Nella città d’Italia in cui nel 2014 c’è stata la maggior perdita di valore aggiunto, il maggior aumento di disoccupazione, soprattutto giovanile, in cui la povertà aumenta, in cui i negozi chiudono uno dopo l’altro, in cui c’è una scarsissima propensione a sfruttare le potenzialità del territorio, in cui il turismo è solo un concetto vago, ancora si resta legati a questo modello economico in cui l’industria rappresenta il 70% del PIL locale. Un PIL enorme, che però ha un valore solo nominale per Taranto, poiché quasi nulla resta in città, se non gli stipendi di chi ci lavora nell’industria mettendo a rischio la propria salute.
Un sindacato moderno dovrebbe guardare oltre, progettare insieme ai lavoratori un futuro diverso che preveda una svolta importante, salvaguardando redditi e posti di lavoro. Una riconversione economica farebbe meno paura agli operai dell’ILVA, se questa fosse appoggiata dai sindacati. Invece no, l’unica parola ripetuta mille volte è ambientalizzazione. Perché nessuna voce si alza diversa dal sindacato? Nelle assemblee tutti i lavoratori son compatti nel seguire queste indicazioni? Ogni cambiamento richiede coraggio e qualcuno deve cominciare a parlare fuori dal coro. Forse all’inizio sarà una voce isolata, ma col tempo altre si uniranno.
Giuseppe Aralla