Ilva, crisi lavoratori indotto: «Ci sono troppe nubi, è il momento di dissiparle»

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FullSizeRender (1)Entro e non oltre il prossimo 10 febbraio. Il tempo stringe per le sorti dell‘Ilva di Taranto. Lo stesso giorno scadrà infatti il bando per la cessione del siderurgico ai gruppi privati che avranno manifestato interesse d’acquisto, mentre Fim, Fiom e Uilm hanno già annunciato l’inizio di una mobilitazione di tutti i lavoratori sia diretti che dell’indotto. Lo hanno deciso oggi al termine di una riunione dei delegati dell’indotto nella sala consiliare di Palazzo di Città, dopo un sit-in davanti la sede del Comune. Ammortizzatori sociali, vendita della fabbrica, livelli occupazionali, risanamento ambientale i temi toccati. Tavolo permanente su Taranto e intervento della Regione (erano pronti ad autoconvocarsi ma da Bari hanno fatto sapere che l’incontro si terrà martedì 9 febbraio) le richieste messe nero su bianco in un documento unitario. «Il 10 febbraio da Taranto deve partire un segnale forte: diritto al posto di lavoro e certezza di non ammalarsi». Sono le parole di Antonio Talò, segretario della Uilm Taranto, che sottolinea però le differenze con le proteste di Genova. «A Genova c’è una coesione istituzionale e non solo. Vorremmo arrivare anche noi a quella consapevolezza, marciare nella stessa direzione. Ma quello che può succedere a Taranto, in assenza di risposte precise ed esaustive, credo non sarebbe la stessa cosa».

GetAttachmentTalò contesta i numeri di Confindustria sulla crisi Ilva. «I numeri veri li abbiamo noi: in Italia ci sono 300 mila metalmeccanici in meno, a Taranto circa 4 mila. C’è un dato che non è emerso: l’Ilva contava 13.400 persone nel 2010, oggi ne conta 11.200. Abbiamo perso solo dal siderurgico 2.200 posti a cui si aggiungono 1.600 lavoratori che non sono più nell’orbita di quel recinto». Da qui la critica alla politica. «Abbiamo fatto il consiglio di fabbrica per due volte al comune e solo uno o due consiglieri, oltre l’onorevole Pelillo, si sono interessati al dramma che viviamo». Ma il segretario Uilm invita l‘Usb a «chiarire la sua posizione. Qualche suo rappresentante si associa ai 5 Stelle che legittimamente fanno un loro percorso che è quello di chiudere l’Ilva». E non risparmia nemmeno Peacelink, l’associazione ambientalista che si batte per il diritto alla vita e alla salute: «Credo che prima della seconda Aia avesse un’idea: produrre acciaio senza danneggiare lavoratori e città. Questo messaggio è cambiato e non lo capisco».

Giuseppe Romano, segretario della Fiom Taranto, torna invece sul capitolo occupazione nell’indotto: «Abbiamo oltre 400 lavoratori ad oggi licenziati o in mobilità, centinaia sotto ammortizzatore sociale ma la cosa peggiore è che non c’è prospettiva industriale. Questi lavoratori erano i primi che dovevano rientrare per ambientalizzare la fabbrica». Poi traccia la linea da seguire: «L’iter del milleproroghe non ci ha dato ancora risposte ma è evidente che non possiamo aspettare in maniera passiva. Si parla di «integrazione salariale sui contratti di solidarietà» ma Romano non perde di vista la «cosa fondamentale: sullo sfondo abbiamo il rischio concreto di vedere consumarsi macelleria sociale sui lavoratori sia diretti ma soprattutto su quelli degli appalti che pagano sulla loro pelle procedure di licenziamenti e perdita di reddito».

Come sottolinea Valerio D’Alò, segretario Fim, «l’indotto è sempre stato l’anello debole di tutta la catena produttiva, ma l’Ilva si salva nel suo intero». C’è da salvare Taranto che sarebbe diventata «una vera e propria polveriera». D’Alò ricorda: «Dal 2012 rivendichiamo la stessa cosa: non vogliamo una fabbrica a prescindere, ma una fabbrica che sia rispettosa dell’ambiente, della salute e che mantenga i livelli occupazionali. È un progetto ambizioso nel quale crediamo dall’inizio e che continuiamo a portare avanti». Per il segretario Fim infine «ci sono troppe nubi ed è il momento che vengano dissipate».

Nicola Sammali

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