Se vediamo qualcuno che inciampa per strada, un vecchietto che ha difficoltà ad attraversare la strada o a prelevare la scatoletta di fagioli troppo in alto nello scaffale del supermercato, diventa logico e auspicabile che si corra a tendergli una mano. Quella piccola o grande buona azione fa nascere il sorriso sulle labbra di chi la riceve e mette di buon umore chi l’ha elargita. È il gesto che crea e fa circolare valore positivo, innalza il livello di stima personale di tutti e immette in uno stato interiore di speranza verso un mondo migliore.
Ben diverso, invece, è il volersi occupare ad ogni costo, anche inconsapevolmente, di chi non avrebbe tanto bisogno di sostegno e che comunque potrebbe cavarsela anche da solo. La tipologia relazionale della crocerossina nasce da un bisogno profondo delle donne di sentirsi accettate, amate, benvolute, in definitiva da un’inconscia necessità di innalzare la stima personale quasi esclusivamente attraverso delle azioni di aiuto che se venissero a mancare lascerebbero spazio al senso di vuoto e di inutilità esistenziale. Di conseguenza, ciò che caratterizza l’operatività della donna affetta dalla sindrome della “crocerossina” è il cercare di rendere dipendente da sé l’altro a cui si presta soccorso, privandolo della propria autonomia e della propria crescita personale, in modo da assicurarsi il falso nutrimento quotidiano di stima di sé. In definitiva, anziché creare e far circolare valore positivo, si mette in atto una condizione di privazione e di disvalore che finisce per danneggiare entrambi.
Ma vediamo quali sono i segnali più rilevanti che possono metterci in allarme.
Se siamo troppo attente a rilevare le inefficienze o i bisogni di chi ci sta intorno, soprattutto affettivamente, stiamo già imboccando una strada non buona.
Se anziché aiutarlo a sviluppare da sé le proprie potenzialità, colmiamo noi le sue lacune, perché in questo modo possiamo inconsapevolmente valorizzare noi stessi a discapito dell’altro, stiamo già entrando a pieno titolo nel ruolo di “crocerossina”.
Infine, se alla rilevazione quasi ossessiva delle carenze del prossimo e al soccorso subitaneo, tendiamo anche verbalmente a sottolineare tali inefficienze (“non sei proprio in grado di mettere ordine”, “sei disorganizzato e manchi di praticità”, “sei debole e hai bisogno di qualcuno che si occupi di te”, ecc., ) e a far presente che senza di noi nulla sarebbe possibile (“meno male che hai incontrato me, altrimenti cosa avresti combinato della tua vita?”, “tranquillo ci sono qua io, non perdere tempo a fare cose che ti riescono male.”,”sei così perché nessuno ti ha mai amato, ma adesso ci sono io”, ecc.), abbiamo gettato le basi per una dipendenza distruttiva e siamo divenute ormai, “crocerossine” conclamate.
Come fare per guarire e rimettersi sulla giusta via?
Divenire sufficientemente attente alle proprie carenze e darsi un gran da fare per colmarle, compiendo tante piccole e grandi buone azioni verso se stesse.
Cercare di realizzare la propria vita, allenandosi a raggiungere traguardi.
Sviluppare un dialogo interiore nuovo, incoraggiandosi a tirare fuori sempre il meglio, sia da se stessi che dagli altri.
Quando avremo realizzato la nostra vita in pieno ci mancherà la voglia e l’interesse per perdere tempo a rilevare tutto ciò che non va negli altri e saremo molto più propense a stimolarli a una giusta crescita personale, in modo che ciascuno diventi artefice del proprio destino e portatore di serenità, autonomia ed equilibrio emozionale.
Psicologa – Scrittrice
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