IL VECCHIO PALLINO DI BONDI
Il metodo produttivo basato sul pre-ridotto non è una novità. Se n’è parlato lungamente quando era Enrico Bondi il Commissario dell’Ilva. Carlo Mapelli, ordinario di metallurgia e siderurgia al Politecnico di Milano e consulente Ilva, aveva affermato nel corso del 2014: “L’idea del pre-ridotto all’Ilva si sposerebbe in realtà anche con il conto economico di Jindal (dato in quel periodo tra i possibili acquirenti del siderurgico, ndr), perché non comporterebbe un fabbisogno sostanziale di investimenti per l’adeguamento degli impianti, ma soltanto la revisione e la messa a punto di una serie di procedure tecniche-operative legate al processo produttivo».
PRE-RIDOTTO=RIDIMENSIONAMENTO
Non tutti, però, accolgono con favore questo approccio che starebbe raccogliendo l’attenzione di ambienti politici locali e nazionali. L’ipotesi viene bocciata, ad esempio, da Vincenzo Comito, economista di Sbilanciamoci, attualmente consulente aziendale e docente di finanza aziendale presso l’Università di Urbino, nelle settimane scorse relatore a Taranto di un convegno promosso da Rifondazione Comunista sul rapporto tra lavoro e salute.
«La tecnologia del preridotto – scrive sul sito di Sbilanciamoci – non utilizza nel processo produttivo l’agglomerato di minerali, al contrario che nel vecchio impianto, mentre il coke prodotto nelle cokerie viene sostituito dal gas; apparentemente si dovrebbero così mettere fuori gioco due dei fattori più inquinanti del processo produttivo tradizionale. Ma bisogna intanto considerare che il punto di pareggio dell’impianto di Taranto, visti anche gli elevati costi fissi, si situa intorno agli 8-9 milioni di tonnellate annue, cifra che appare anche vicina alla capacità produttiva massima dell’impianto. Allora se una parte rilevante della produzione fosse fatta con la tecnologia del preridotto –questa appare l’ipotesi in ballo – l’impianto tradizionale andrebbe sicuramente in perdita; d’altro canto, bisogna considerare che le installazioni dello stesso preridotto sono in genere di dimensioni piccole, dell’ordine di qualche centinaia di migliaia di tonnellate e che quasi tutte sono collocate nei paesi emergenti. Esse hanno poi la necessità tecnico-economica di essere posizionate in aree ad alta intensità energetica. Per altro verso, non risulta che nel mondo esistano impianti a ciclo integrale, come quello di Taranto, che impieghino più del 4% del preridotto sul totale della produzione. Questo senza considerare che le grandi centrali elettriche dell’impianto Ilva sono alimentate con i gas di cokeria e di altoforno”.
L’ipotesi del preridotto comporterebbe sicuramente una riduzione (tutta da quantificare) della produzione offrendo indubbi vantaggi ambientali e sanitari. Sappiamo bene, però, che ben altri fattori entrano in gioco quando si parla di Ilva: la salvaguardia dei livelli occupazionali e la convenienza economica per l’azienda. Fattori che determineranno, ancora una volta, la scelte future.
Alessandra Congedo
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