Ilva, Cataldo Ranieri: «Così muore un lavoratore»
TARANTO – «Io come lavoratore sono morto». In quanti modi può morire un lavoratore? Schiacciato da un grosso tubo d’acciaio, come Cosimo Martucci, martedì mattina appena. Travolto da un mezzo meccanico, come Angelo Iodice, il 4 settembre 2014. Schiacciato mentre agganciava la motrice ai vagoni, come Claudio Marsella, il 30 ottobre 2012. Investito da una colata di ghisa incandescente, come Alessandro Morricella, morto dopo quattro giorni di agonia il 12 giugno di quest’anno. Precipitando da circa dieci metri d’altezza per un intervento di manutenzione, come Ciro Moccia, il 28 febbraio 2013. Finendo in mare a trenta di metri di profondità intrappolato nella cabina di una gru, come Francesco Zaccaria, ritrovato dopo due giorni di ricerche il 30 novembre 2012. «Sono morto insieme a Francesco» racconta a Inchiostro Verde Cataldo Ranieri del Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, il giorno dopo l’ultimo incidente mortale all’Ilva di Taranto. Il sesto in tre anni. Ci spiega che un lavoratore muore anche quando è vittima delle ritorsioni subite perché difende i propri diritti e chiede sicurezza sui reparti, proprio come è successo a lui.
Paga l’operaio, paga la famiglia – Il pensiero di Ranieri corre prima a Martucci e alla sua famiglia. «La morte di un operaio non fa più notizia, ma è morto un padre di famiglia, un marito, un fratello, è morta una persona, per che cosa? A cosa è servita quella morte? Alla fine la produzione continua, l’azienda guadagna, paga l’operaio e la sua famiglia. Esprimiamo le nostre condoglianze e la nostra solidarietà alla famiglia, non abbiamo altre parole». Ne bastano poche per spiegare che cos’è l’Ilva oggi nelle mani dello Stato. «La situazione è peggiorata rispetto all’era Riva, addirittura. Le procedure di sicurezza sono considerate delle lungaggini. I lavoratori che obiettano problemi di sicurezza vengono presi di mira e quindi diventano per tutti quanti un esempio di come non bisogna comportarsi. Quando si persegue chi obietta un problema di sicurezza, i più deboli poi non obiettano più e vanno a lavorare anche in condizioni precarie».
Il prezzo della verità – La morte di Francesco Zaccaria è un ricordo durissimo per Ranieri. «Io come lavoratore sono morto. Sono morto insieme a Francesco quando è caduta la gru. Ho raccontato delle verità che non stavano emergendo: si stava dando la colpa esclusivamente al vento mentre invece c’erano delle responsabilità per la mancata sicurezza e per la mancata manutenzione. E perché il mio collega era sulla gru nonostante l’allarme meteo?». Parole che hanno dato fastidio all’azienda e che gli sono costate care. «Da due anni e mezzo non esisto, mi hanno messo tutti i lavoratori contro: sono arrivato al punto che chiedo di essere messo in solidarietà perché non ce la faccio».
Nonostante questo ha continuato con i Liberi e Pensanti «a dire agli operai le cose come stanno. Sia l’azienda che i sindacati in questi anni hanno lavorato per metterci contro tutti i lavoratori con l’onta del fango. Abbiamo denunciato il sistema dei fiduciari, abbiamo denunciato i capireparto, abbiamo fatto e facciamo emergere ancora oggi tante cose che magari non emergerebbero. Ogni giorno succedono mancati incidenti mortali, poi c’è la volta che va male e quindi si piange il morto». Come adesso con Martucci. Come con Morricella pochi mesi fa. «Quella volta è successa una cosa gravissima: l’azienda ha detto ai sindacati che non c’è rimedio, che non può intervenire. Praticamente si rischia la vita e per decreto si può rischiare la vita: se succede di nuovo è un danno collaterale».
Ranieri ha lasciato da tempo il sindacato. «Ho dato le dimissioni dalla Fiom perché era un muro che non riuscivamo a sfondare. Nel 2007, quando ero segretario, abbiamo messo al corrente la Fiom nazionale dello schifo che stava accadendo a Taranto, compreso il Vaccarella. La risposta è stata: “mettiamo tutto a tacere”. Ne siamo usciti schifati. Ora il sindacato è impegnato soltanto nella guerra alla delega, nemmeno un comunicato per smentire il 91% dell’Aia applicata che è una vergognosa bugia. Se è stato applicato il 91% dell’Aia perché il 40% dei lavoratori è ancora in solidarietà? Perché non si parla più di copertura dei parchi minerali?».
Due agosto 2012, un nuovo punto di partenza – «Nessuno sapeva di quel tre ruote» che sarebbe entrato in piazza della Vittoria con a bordo un gruppo di lavoratori pronti a confrontarsi con i sindacati. Due giorni prima della manifestazione avevano chiesto di partecipare e di poter intervenire, ma non ci fu risposta. Delle altre tute blu che gremivano il centro di Taranto «nessuno ci ha contrastato, nessuno ci contraddiceva perché stavamo dicendo la verità. Hanno una buona stima di noi perché quando eravamo in Fiom non siamo mai scesi a compromessi. Sappiamo che scendere a compromessi con questi poteri forti è come avere un debito da saldare». Su quel tre ruote salì anche Raffaele Cataldi che oggi fa sempre parte del Comitato e porta avanti «senza delegare» la sua battaglia per un «diritto non riconosciuto» in fabbrica. «Non abbiamo mai fatto una protesta per tutti i lavoratori che si sono ammalati e sono morti, non abbiamo mai fatto una protesta per i bambini di Taranto che a causa dell’inquinamento si ammalano: abbiamo fatto proteste solo quando c’è stato a rischio il posto di lavoro e questo non è normale».
I Liberi e Pensanti spezzano le catene del ricatto occupazionale – «Nessuno parlava delle persone che morivano e muoiono ancora d’inquinamento» dice Ranieri mentre riavvolge il nastro su questo pezzo di storia personale e di movimento nato dal basso. «Non abbiamo mai detto chiudiamo l’Ilva e andiamo a casa ma sappiamo che gli impianti non possono essere risanati perché ci vogliono tanti soldi, chi li deve mettere? Il privato ha fatto capire di no perché sarebbe un investimento a fondo perduto. L’unico modo di fare acciaio a Taranto è uccidendo le persone. Noi difendiamo il lavoro e i lavoratori, non l’Ilva. Perché non cominciamo a trovare le alternative? Senza una chiusura programmata si creerebbe un disastro: perché non si investono i soldi sequestrati per salvare i lavoratori? Bonifica e riqualificazione, un piano speciale per una no tax area: questa è la strada».
La risposta della città – «Nonostante gli sforzi, la passione che ci abbiamo messo, alla fine la gente delega lo stesso. Ci aspettiamo che cominci davvero a partecipare». Non a caso dal 2012 ad oggi sembra essersi un po’ placata quella contaminazione positiva che si era creata attorno alle sorti della città: il concerto del primo maggio organizzato dai Liberi e Pensanti rappresenta uno straordinario momento di partecipazione con un pubblico di oltre 150mila presenze, ma soprattutto dà respiro all’economia di Taranto. Ma è l’eccezione, è soltanto per un giorno. Dopo cosa accade? «Ognuno pensa al suo orticello». E l’attenzione dei Liberi e Pensanti è rivolta al quartiere Tamburi, ai bambini che ci vivono. «Ci sono 1.200 bambini nelle scuole a 200 metri dai parchi minerali. Quei bambini respirano veleni. Come si fa con l’inizio delle bonifiche a non prevedere un sistema di filtraggio dell’aria nelle scuole? Lo abbiamo chiesto al sindaco invitandolo poi a dimettersi. Nel 2013 Alfio Pini disse che i lavori di bonifica per Taranto cominciano con otto milioni e mezzo di stanziamento e si parte dalle cinque scuole dei Tamburi: sono mai arrivati questi soldi? Dove li hanno spesi? Cosa è cambiato in questi tre anni al quartiere Tamburi? Le bonifiche che stanno facendo sono un’offesa all’intelligenza delle persone. Due milioni di euro di soldi pubblici buttati. Quei soldi potevano essere spesi per esempio per curare i Tamburi, per fare le pulizie ogni giorno, per far lavorare i giovani disoccupati».
Una possibile candidatura – Forse per questo i tempi sono maturi per il Comitato per dare una prospettiva al proprio impegno e alle proprie idee. Convogliare le forze in un progetto politico, quindi candidarsi per offrire un’alternativa di governo alla città. «Sì, ne abbiamo parlato perché si prospetta la possibilità di lasciare questa città in mano a chi l’ha governata per tanti anni e ci ha ridotto in queste condizioni». La volontà comune sarebbe quella di «fare politica senza clientelismo, senza promesse, occupandosi dei problemi della collettività e non è facile. Sarebbe una decisione da ponderare non una ma centomila volte perché se dovessimo decidere di fare questo passo sarebbe per fare qualcosa di buono e fare qualcosa di buono con questo sistema italiano è difficile». Dunque «spetta alla politica pretendere una svolta per Taranto. Investiamo sul porto, Ilva non è più il futuro. Taranto ha pagato per il Pil nazionale e adesso vogliamo risorse per le alternative, non per buttarle in un ferro vecchio».
Nicola Sammali per InchiostroVerde