Ma cosa aveva da farsi perdonare quest’uomo sopravvissuto a mille cicatrici? Se non è lui un eroe dal volto umano, chi altro può esserlo? Ancora sento la sua voce nei corridoi della clinica, così come risuonava tra le pareti di casa. Quella voce forte, talvolta ingombrante, che spesso sfociava in risate fragorose. Le sue risate. Quelle di un uomo che non si è mai dato per vinto e che non ha perso neanche quando è morto.
Chi ha coraggio, in fondo, non perde mai. Magari abbandona il campo per lanciarsi in nuove sfide. Non so dove e con chi. E forse non è essenziale saperlo. Un padre è un uomo all’ennesima potenza. E’ colui che segna il tuo approccio con l’altro sesso, che fornisce le prime coordinate relative all’universo maschile. E lui, nel bene e nel male, condiziona anche il figlio maschio: l’amante, il compagno, l’amico o il marito che sarà. Io non so quanto lui abbia “barato” con me. Mi ha fornito delle coordinate che cerco ovunque ma non riconosco in nessuno. A distanza di quattordici anni dal suo addio, quasi per uno scherzo del destino, mi ritrovo a scegliere tra gli scaffali di una libreria due romanzi che trattano lo stesso argomento: il rapporto tra padri e figli e precisamente tra un padre e una figlia. Sono qui, davanti a me, entrambi finalisti al Premio Bancarella 2015: “Niente è come te” di Sara Rattaro e “Se chiudo gli occhi” di Simona Sparaco. Il primo ha vinto, l’altro è arrivato secondo, con un solo voto di scarto.
“Credi solo in quello che vedi. Il fatto che tu sia l’unico a vederlo non vuol dire che non esista”. Scrive la Sparaco nelle ultime righe del suo libro, una storia che racconta il percorso di riavvicinamento tra Viola e Oliviero, due pianeti costantemente in rotta di collisione, legati da un segreto in grado di separarli ed unirli. Il pretesto è fornito da un viaggio che servirà a ricomporre frammenti di vita, a riempire d’oro fratture finora apparse insanabili. Un’immagine che si ispira alla cultura giapponese e, in particolare, all’idea che un oggetto rotto si possa riparare riempiendone d’oro le linee di frattura, accentuandone il danno. “Quando qualcosa ha sofferto, ed ha una storia – si legge – per i giapponesi diventa ancora più bello”. Sullo sfondo ci sono i monti Sibillini, con il loro carico di suggestioni ancorate a leggende che potrebbero celare un fondo di verità.
A pensarci bene, questa parola fa quasi paura. Qual è la verità? Quella percepita dal nostro animo o quella narrata dagli altri? O è qualcosa che si trova in mezzo, utile per alleviare il dolore o per attenuare la rabbia o per fornire un alibi? A tutti. Nessuno escluso. Viola ascolta la verità sofferta di un padre rimasto ostaggio per decenni del suo ego. E la fa sua. L’accoglie come l’eredità di un uomo che ha sbagliato troppo ma non tutto. Non ha alternative per fare pace col passato. Per cominciare ad amarlo come avrebbe sempre voluto. Per ritrovare la strada verso casa. Una casa che non sarà più la stessa.
«Ci sono separazioni che non indeboliscono gli affetti, e ritorni che hanno il solo scopo di rinsaldarli», scrive la Sparaco e sembra fornire un assist all’altro romanzo che fa capolino sulla mia scrivania: “Niente è come te” di Sara Rattaro. In questo caso, la protagonista è Margherita, una bambina negata a suo padre Francesco da una mamma egoista. E’ la storia di un amore boicottato per anni. Otto, nove, dieci. Non importa. E’ sempre troppo per un genitore dalle mille premure. Un papà tenuto a distanza, trattato come un mostro, e reso impotente da una strategia disumana. Uno sconosciuto che appare all’improvviso per elemosinare spiccioli d’affetto.
Ad avvicinarli sarà un cammino lungo e tortuoso, segnato da imbarazzanti silenzi, spilli di diffidenza e buffi tentativi di esorcizzare il demone della distanza. Prima fisica, poi mentale. Ma il sentimento coltivato ogni giorno, quel nutrimento che alimenta il primo germoglio d’amore, darà i suoi frutti. In un abbraccio tra anime che non hanno mai smesso di cercarsi, nonostante le iniziali resistenze di Margherita. Io non ricordo quante volte ho abbracciato mio padre. Poche credo. Ma so che la sua presenza ha nutrito la mia anima. Sono stata fortunata. L’assenza di un padre, voluta o subita, può segnare la vita di una persona molto più della sua presenza. Un vuoto incolmabile che ha la ferocia di una ferita sempre aperta. «Perdonatemi di tutto figli miei», ci ha detto quel giorno. Io davvero non so di cosa.
Alessandra Congedo – Agosto 2015
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