L’errore di credere nel futuro
Siamo ai titoli di coda. Già, la nostra storia pare davvero ormai giunta all’epilogo. Del resto, lo avrete anche sospettato non trovando lo strillone per le strade della città e il giornale in edicola. La crisi morde, gli effetti sono devastanti e noi ne siamo stati risucchiati. Dopo tanti anni, stiamo per consegnarci al ‘nemico’, per una sorta di resa ultima che non avremmo mai e poi mai voluto. Ma noi siamo un giornale che vive in una città in declino da almeno un decennio, e quindi non sfuggiamo al destino di tante, tantissime aziende medie e piccole che nel corso del tempo hanno alzato bandiera bianca. Vi chiederete: e allora perché in circolazione per qualche altra settimana, e per giunta con pagine ridotte e per quattro edizioni su sette giorni? Perché vogliamo uscirne con la dignità che ci ha sempre contraddistinto e, permettete?, perché la speranza è sempre l’ultima a morire.
Già, perché pur consapevoli che nessuno lancerà una ciambella di salvataggio, vogliamo ancora ‘restare vivi’. Sì, noi non abbiamo padrini politici o gruppi imprenditoriali alle spalle o contributi dello Stato: viviamo di vendite e pubblicità, una formula che paga a caro prezzo la crisi di una città (e di un Paese) il cui futuro è del tutto incerto. Una formula evidentemente sbagliata, perché la libertà di manovra e di parola è un lusso che qui non è permesso. E non ci sarà alcun decreto del governo o contrattazione sindacale per salvarci: siamo microscopici e soprattutto siamo scomodi. Del resto, neppure chi si sollazza con i contributi pubblici o il portafoglio dei potenti vive annate sfavillanti, tutt’altro: quante ‘vittime’ ha provocato e sta provocando il mondo dell’editoria, anche se nessun ve lo confida?
Qui errori ne abbiam commessi, per carità. Uno su tutti: aver interpretato male la città, non averne capito il carattere, l’averla invece vissuta fino in fondo con lo sguardo di quanti la desiderano e la sognano differente. Insomma, non ci siamo lasciati ‘normalizzare’, ribellandoci sempre e comunque a quanti hanno distrutto la bellezza di questa terra. Appunto, coloro i quali ancora oggi poltriscono nei salotti buoni e gestiscono la comunità con il joystick, fregandosene altamente degli altri, però – attenzione – da colonnelli fedeli dello Stato padrone. Di grazia, questa è una città lamentosa e abile a menar le colpe sugli altri, capace di delegare anziché imbracciare i forconi e riappropriarsi delle leve di comando. Come può pretendersi una deviazione sulla rotta decisa altrove? Qui accade davvero di tutto, la città va spegnendosi lentamente ma inesorabilmente, eppur c’è chi la mena altrove, affibbiando errori agli altri e mai assumendosi responsabilità. Piuttosto urla, s’inorgoglisce, piange e si commuove: e poi? Non conosce il senso della comunità, semmai la osteggia.
Ecco perché abbiamo sbagliato. Avremmo dovuto beccar qualche imbarcata di danaro dall’Ilva e dall’Eni e dalla Total (pardon: da quest’ultima abbiamo accettato un paio di pubblicità ma siamo stati cannoneggiati senza pietà, facendo silenzio su altri che di soldi ne hanno incassati a container); genuflessi avremmo dovuto asservire questa e quella cordata politica; lascivi avremmo dovuto editare ‘marchette’ anziché opinioni; serpenti avremmo dovuto frequentare i divani che contano; sbavanti avremmo dovuto seguire la scia dei profeti e degli onnipotenti che imperversano dalle nostre parti. Non l’abbiamo capito ed è giusto pagarne le conseguenze: abbiamo scelto di servire diversamente la città, e purtroppo la storia ci ha sconfitto. Non siamo mai stati i migliori, ma artigiani della penna e del pensiero: noi ci abbiamo messo la faccia, negli anni abbiamo rischiato le ‘mazzate’ di qualche ‘allegra’ amicizia ilvina, abbiamo pure ricevuto qualche messaggio mafioso e un paio di pallottole imbustate. Forse, l’avremmo dovuto capire allora ch’era meglio lasciar perdere.
Marcello Di Noi (direttore del TarantoOggi, 7 luglio 2015)