“Le inadempienze del governo italiano – evidenzia Pedicini – sono almeno tre: prima di tutto non si sa se i ministeri dello Sviluppo e dell’Ambiente stanno redigendo il Programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi, così come previsto dalla direttiva europea Euratom 2011/70/ del 19 luglio 2011. I termini scadono il 23 agosto prossimo e sembra che l’Italia voglia chiedere una proroga alla Commissione europea.
Poi, c’è il mancato funzionamento dell’Isin, l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione. L’organismo pur istituito non è ancora in grado di svolgere le sue funzioni così come richiesto dalla direttiva europea, in quanto è privo del direttore, dei membri della consulta e di un suo organico. L’Isin è molto importante perché deve esercitare attività di controllo e vigilanza nei confronti di Sogin Spa, la società pubblica che ha il compito di smantellare gli impianti nucleari e gestire i rifiuti radioattivi.
Infine, non è stata completata la classificazione dei rifiuti nucleari presenti in Italia secondo gli standard internazionali per poter avere una precisa gestione operativa delle scorie e una migliore protezione e sicurezza dal rischio radioattività. Tali situazioni, – continua il portavoce pentastellato – oltre a generare apprensione tra le popolazioni residenti nelle zone dove ci sono impianti nucleari attivi o dismessi o dove si ipotizza che potrebbe essere realizzato il deposito unico nazionale delle scorie, potrebbe legittimare la Commissione europea ad intraprendere una o più azioni nei confronti dell’Italia per l’apertura di una procedura d’infrazione.
Da evidenziare che secondo fonti di stampa, – sottolinea Pedicini – entro il 10 luglio prossimo, l’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) dovrebbe consegnare ai ministeri dello Sviluppo e dell’Ambiente la mappa dei siti potenzialmente idonei ad ospitare il deposito nazionale. L’Ispra definirà la mappa facendo riferimento ad una documentazione tecnica denominata Cnapi, Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee, che gli è stata consegnata dalla Sogin il 16 giugno scorso.
Dopo la pubblicazione dell’elenco dei siti idonei, così come è stato previsto dalle norme nazionali vigenti, i ministeri dovranno aprire una fase di confronto con gli enti locali e con le popolazioni residenti. Alla fine di questa consultazione verrà indetta una conferenza nazionale, durante la quale si analizzeranno le eventuali disponibilità dei Comuni ad ospitare il deposito. In caso di fallimento del processo di consultazione, il piano B del governo prevede la nomina di un comitato interministeriale che sceglierà il sito autonomamente.
I criteri da rispettare per individuare il sito idoneo sono quindici, si va dall’esclusione delle aree sismiche a quelle vicine ad aree naturali protette e così via. Secondo i criteri stabiliti, le regioni in cui il deposito potrebbe sorgere sono: Puglia, Lazio, Toscana, Veneto, Basilicata e Marche. La regione dove l’argomento è più sentito è la Basilicata. Come è noto, infatti, già nel 2003 all’insaputa delle popolazioni locali, il governo Berlusconi fece un decreto con cui prevedeva di impiantare il sito nazionale a Scanzano Jonico, senza prendere le benché minime precauzioni in termini di salute pubblica e di impatto con il territorio. Il governo Berlusconi ritirò il decreto dopo che ci furono 15 giorni di proteste, blocchi stradali e massicce manifestazioni popolari mai viste in Basilicata.
I siti italiani che attualmente ospitano rifiuti radioattivi – precisa Pedicini – sono 24, per un totale di 90 mila metri cubi di scorie. Di queste, circa 75 mila metri cubi sono rifiuti di bassa e media attività (seconda categoria) che decadono in un arco massimo di 300 anni, i restanti circa 15 mila metri cubi di rifiuti sono invece quelli ad alta attività (la cosiddetta terza categoria) la cui radioattività decade nell’ordine di migliaia di anni, per i quali si prevede il loro stoccaggio temporaneo prima nel deposito nazionale, in attesa della loro sistemazione definitiva in un deposito geologico.
I rifiuti radioattivi di prima categoria, che hanno invece un basso contenuto di radioattività e decadono in pochi mesi, non sono destinati al deposito in quanto vengono eliminati attraverso le tradizionali vie di smaltimento. Oltre ai rischi sanitari per la salute dei cittadini, – conclude l’eurodeputato del M5s – le scorie radioattive se non sono correttamente gestite, e controllate in condizioni di massima sicurezza, possono anche rappresentare un potenziale rischio per eventuali atti terroristici.
Per la realizzazione del deposito unico nazionale, che verrà costruito all’interno di un Parco tecnologico di ricerca, è previsto un investimento complessivo di circa 1,5 miliardi di euro. Si stima che la realizzazione del sito dovrebbe generare circa 1500 occupati l’anno per quattro anni e che la sua gestione dovrebbe produrre circa 700 posti di lavoro. Secondo alcune associazioni ambientaliste, i rifiuti ad alta attività dovrebbero essere gestiti in un deposito europeo fuori dall’Italia, perché l’Italia è il paese europeo che ha meno rifiuti radioattivi di questa categoria”.
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