Ilva, una morte annunciata. Travolta da un fiume di ipocrisia

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casco ilvaTARANTO – Un fiume in piena di ipocrisia. Della specie peggiore perché segue la morte di una persona. E perché proviene da ogni settore e da ogni parte della città, senza eccezioni. Un’ondata di indignazione, di sconforto, di rabbia, di pietà che siamo costretti a sorbirci ogni qual volta accade un evento simile: le parole sono sempre le stesse. A cambiare sono soltanto i nomi e i cognomi delle persone che perdono la vita: dentro e fuori la grande fabbrica. Senza soluzione di continuità.

Il fatto “strano” è che non cambia mai niente. Né dentro, né fuori la grande fabbrica. Questa città osserva la sua storia immobile, compatisce i suoi morti silenziosa come fosse un destino ineluttabile. Tutti parlano come se la responsabilità di quanto accade appartenesse ad un’entità aliena a noi. Come se la storia di questa città non fosse stata scritta dai suoi cittadini, dai suoi politici e via discorrendo ancora oggi, ma fosse un’opera afona di uno scrittore dell’antichità che si ripete in un continuo eterno ritorno.

Tutti piangono la morte dell’operaio Morricella che ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Eppure, tutti sanno che l’Ilva da anni è una fabbrica insicura, nella quale ogni giorno si gioca una roulette russa che può colpire chiunque in qualunque reparto, senza alcun preavviso. Lo sanno i politici, i sindacalisti, gli operai e i singoli cittadini. Eppure ogni giorno migliaia di lavoratori varcano in silenzio i cancelli del siderurgico come soldati ossequiosi e coraggiosi.

Mentre i sindacati continuano a “mediare” inutilmente tra lavoro e salute. I politici, quelli più in alto, proseguono imperterriti a votare leggi per salvare l’esistente, quelli più in basso ad osservare speranzosi che tutto cambi o che al massimo nulla di grave succeda. I cittadini, da par loro, fanno lo stesso. Osservano, a volte commentano, nella maggior parte dei casi si stringono nelle spalle. Tutti sanno che l’Ilva ha inquinato, ammalato e ucciso negli anni centinaia di persone, senza distinzione di sesso e di età (e che continuerà a farlo per chissà quanto tempo ancora). Eppure ogni giorno i tarantini sperano che il “brutto male” li sfiori soltanto e colpisca altrove. Con la società civile che si è spappolata in mille rivoli rancorosi ed è implosa in se stessa a causa delle sue incoerenze e del suo malato protagonismo.

Sia nel primo che nel secondo caso, nulla è cambiato. Tutto è rimasto uguale al 2012. O se volete al 2011, al 2008, al 2002, al 1998, al 1995, al 1990, al 1983, al 1975, al 1964. Eppure le parole per scrivere comunicati stampa idioti e ipocriti non mancano mai. Le parole per scrivere su Facebook frasi di finta rivoluzione, di condoglianze alla famiglia e di “R.I.P” anche. Poi però, nella giornata del ricordo dei morti sul lavoro, giovedì mattina ai Tamburi, non c’era anima viva. “Stranamente” ieri, al cimitero di Talsano, erano tutti in prima fila, autorità in primis e società civile appresso, perché ad una fotografia sui giornali e ad una ripresa delle telecamere i “nostri prodi” non rinunciano mai. Esiste un sentimento, che si chiama dignità, che in molti dovrebbero ritrovare e iniziare ad esercitare per la prima volta nella loro vita. Esiste un atteggiamento, che si chiama coerenza, che in molti dovrebbero iniziare a sperimentare: magari scoprirebbero che nella vita pensare ed agire di conseguenza non sono due azioni opposte e impossibili. E poi esiste una cosa ancora più preziosa: il silenzio. Se proprio volete dedicare un pensiero all’operaio Morricella e chiedere anche a lui scusa per i motivi di cui sopra, fatelo così.

Gianmario Leone

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