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Vent’anni dopo. Il dolore c’è ancora. Il bene è per sempre

Vent’anni sono tanti. O pochi, a seconda della prospettiva in cui li si guarda trascorrere. Per alcuni possono essere una vita. Per altri soltanto una parte di essa. Nel tuo caso sono gli anni che sono passati da quando hai deciso di interromperla la vita. La tua.

Sono stati vent’anni duri. Intensi. Ma soprattutto sono stati anni di lunghi ed interminabili silenzi. Di domande cadute nel vuoto delle nostre menti e delle nostre coscienze. Che resteranno per sempre senza risposta. Vent’anni di un dolore ovattato, invisibile, ma profondamente pesante da sopportare per i nostri cuori.

Vent’anni conditi da pensieri di tutti i tipi, nei quali si sono affacciate tutte le ipotesi possibili: perché quando la mente umana si trova davanti all’assurdità di un fatto apparentemente senza motivo o motivazioni plausibili, è così che reagisce. Cerca, indaga, pensa, accusa, s’indigna, soffre. Il problema è che quando devi farlo con addosso il fardello di un dolore insopportabile, inaccettabile, si è di fronte ad un’impresa che ha dell’impossibile.

A maggior ragione poi se nel profondo del tuo cuore, in modo del tutto inconscio eppur consapevole, ti senti in parte responsabile e colpevole di ciò che è accaduto. Perché non lo hai previsto. Perché forse potevi percepire ciò che non hai percepito, anche qualcosa di impercettibile. Foss’anche un sorriso più amaro del solito. Una luce diversa, più spenta negli occhi. Foss’anche una domanda in più che non è stata fatta. O una parola che è stata taciuta. Del resto però, gli anni prima di questi vent’anni, non hanno di certo aiutato. Anche quelli sono stati anni di lunghi silenzi. Di parole non dette. Di domande non fatte. Di gesti omessi. Per natura, perché era così che si era cresciuti. E cambiare non è semplice, per nessuno.

Ma poi, diciamocela tutta caro zio, chi è realmente in grado di leggere nei pensieri e nell’animo umano di un’altra persona? Chi ha realmente voglia, pazienza, sensibilità per farlo? Pochi, troppo pochi. E’ così che passano gli anni. E’ così che ci perdiamo tanto, forse troppo, o tutto, degli altri. Anche di quelli che spesso ci vivono accanto ogni giorno. Senza capire che spesso e volentieri non potremo più tornare indietro, com’è successo con te.

Sai zio, ti ho pensato tanto in questi vent’anni. Non ti ho mai condannato, o giudicato. Non lo trovavo corretto, né giusto. Certo, mi sono posto tante domande. Ho provato, invano, a rendere meno pesante il dolore di chi ti ha amato e ancora oggi ti ama follemente, e nel suo animo si dispera per non aver saputo, potuto, capito. Un dolore che solo un fratello può provare. Ho pensato a cosa deve succedere nell’animo e nella mente di una persona che decide che è giunto il suo momento. Arbitrariamente. Fermando l’orologio biologico che invece non ha alcuna intenzione di fermarsi. Quali sono i pensieri, i ragionamenti, le valutazioni che si fanno quando si decide che il tempo è finito. Che ne si ha abbastanza di questa vita. Di questa esistenza così assurda e pesante da gestire.

Sai zio, Schopenhauer sosteneva che la realtà in cui viviamo non è altro che un’illusione. La realtà, quella vera, sta dietro un velo a noi invisibile, impercettibile: è lì, secondo quel filosofo, l’essenza di tutto. Ed io in questi 20 anni ho pensato sempre che tu quel velo l’hai voluto squarciare. Per andare a vedere, per liberarti di tanti pesi che avevi dentro. E’ un atto egoista, individualista, cinico quello del suicidio. Kierkegaard ti avrebbe rimproverato duramente: ti avrebbe accusato di “aver scelto di non scegliere”. Ma in realtà tu una scelta l’hai fatta eccome. Hai scelto per te e per tutti quelli che ti volevano bene.

Albert Camus invece, ti avrebbe osservato e scrutato attentamente. “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”: questo scriveva il filosofo francese nel suo libro “Il mito di Sisifo”. Anche lui però, alla fine ti avrebbe rimproverato: dicendoti che in realtà in questa assurda esistenza che è la vita su questo mondo, ciò che conta realmente è fare quante più esperienze possibili. Bisogna vivere, lottando, scriveva. Esattamente l’opposto di ciò che tu hai scelto per te. E per gli altri. Ma in fondo, caro zio, chi sono io per giudicarti? All’epoca ero un nipote adolescente, vivace, esuberante, ma anche molto riflessivo. Con te si scherzava, si parlava: ma sempre molto poco. Eri una maschera vivente di espressioni. Avevi un bel sorriso. Forse, fossi stato più grande all’epoca, avrei potuto darti una mano, un consiglio: chissà.

Non è andata così. E da quel 26 maggio 1995 tutto è cambiato, nulla è stato come prima. Ma anche questo avevi messo in preventivo. Noi che siamo rimasti in questa parte di mondo, abbiamo provato a vivere al meglio delle nostre possibilità e delle nostre qualità. Testardamente, cocciutamente, nonostante tutto (ed è proprio il caso di dirlo), continuiamo a credere che sia giusto vivere sino alla fine dei nostri giorni. Provando a fare qualcosa per rendere questo assurdo mondo un millimetro migliore. Ma lo facciamo con i nostri pesi nel cuore. Perché ci sono dolori che non possono passare: mai. Si possono nascondere negli infinti meandri della mente di un uomo. Possono essere messi in ombra dalle emozioni e dai sentimenti di un cuore. E, in parte, oscurati dagli eventi della vita di tutti i giorni (e credimi zio, che in questi 20 anni di cose ne sono successe, anche troppe forse). Ma poi alla fine, è sempre lì che si torna: all’inizio di quel dolore. Perché la vita è fatta anche di questo. Ma tu hai preso un’altra strada che non so dove ti abbia portato.

Io posso solo sperare che ovunque tu sia, abbia raggiunto un equilibrio, una pace dei sensi. Che ti sia liberato di tutto. E che magari adesso, chissà, sei nell’aria, nel mare, nella terra. In chissà quale forma e sostanza. Non provo rabbia. Dolore sì. Ma io ti ho perdonato. Perché ho provato a capire. Non so se scriverti dopo 20 anni sia stato giusto. O utile. Probabilmente ho scritto una serie di pensieri sconnessi e raffazzonati. Ma credo che andava fatto. Un’ultima cosa: se puoi, questa notte, va da lui, e poggiagli una mano sul cuore. Basta anche una carezza. Sussurragli che stai bene e che non deve darsi ancora oggi troppa pena. Lui ti ha voluto un bene dell’anima ed è così ancora oggi. Ed ha bisogno di sentirsi più leggero. Magari ti riscrivo tra 20 anni, chissà. Ti abbraccio, ovunque tu sia. Ciao “zì”.

Gianmario Leone 

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