L’Itas srl, azienda dell’indotto, ha chiuso i battenti. Dopo almeno 6 anni di una crisi dalla quale non è riuscita ad uscire. L’azienda doveva ricevere dall’Ilva una cifra pregressa tra gli 8-900.000 euro. E probabilmente, a differenza delle altre ditte che ancora sono in piedi, non avrà avuto una gestione economica delle migliori (come sottolineano alcune fonti sindacali). Ed una volta che si entra in un tunnel di questo tipo, le banche chiudono i rubinetti e ti abbandonano. E l’unica strada è chiudere baracca e burattini. Con l’inevitabile conseguenza che a pagare siano soltanto e ancora una volta i lavoratori. Lo scorso 6 maggio azienda e sindacati hanno firmato l’accordo per la mobilità dei 57 dipendenti: che prevede l’accesso agli ammortizzatori sociali della durata annuale o pluriennale a seconda dell’età del lavoratore, con un assegno mensile tra gli 8-900 euro. Ecco perché appare quanto meno bizzarro che dopo la firma di un accordo per la mobilità degli operai, un’organizzazione sindacale che quell’accordo ha firmato (in questo caso trattasi dell’USB) protesti insieme ad una decina di lavoratori contro la decisione dell’azienda di licenziare i 57 dipendenti. Stranezze del mondo Ilva che non riusciremo mai a “capire”.
Ciò detto, appare infine essenziale, onde evitare l’ennesimo dramma sociale, che venga creato quanto prima un bacino occupazionale in cui far entrare tutti i lavoratori dell’indotto e dell’appalto Ilva, da recuperare attraverso la famosa clausola sociale (idea da tempo sponsorizzata soprattutto dalla Fiom Cgil) da inserire all’interno dei contratti che si andranno a stipulare con le aziende che si occuperanno di effettuare i lavori previsti dal piano di risanamento ambientale (quanto questi eventualmente partiranno) e soprattutto da porre sul tavolo delle trattative allorquando dovesse arrivare il momento della vendita del siderurgico tarantino ad un gruppo privato. Altrimenti piangeremo lacrime ancora più amare rispetto a quelle che già ci attendono dietro l’angolo.
Gianmario Leone
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