Dalla misura del Pil all’aumento dell’entropia – Intervento sul caso Taranto
Riceviamo e pubblichiamo un contributo del dottor Giuseppe Aralla, biologo.
E’ capitato nei mesi scorsi di leggere, a proposito di un possibile rischio chiusura dell’Ilva di Taranto questo tipo di titoli sui giornali: LA CHIUSURA DELLA GRANDE ACCIAIERIA COSTEREBBE L’1% DEL PIL NAZIONALE. All’interno degli articoli si trovavano spesso analisi economiche dettagliate. Si valutava il numero di lavoratori occupati direttamente nel siderurgico, il valore delle merci prodotte, quello dell’indotto, il valore derivante dalla lavorazione dell’acciaio, quello che potrebbe costare in più comprarlo all’estero, ecc. Si arrivava quindi a scrivere nelle conclusioni che non è ipotizzabile la chiusura dell’acciaieria perché troppo strategica ed importante per l’economia nazionale
e che se ciò accadesse, comporterebbe un aumento vertiginoso dei prezzi, un calo notevolissimo del PIL, una aumento repentino del Debito Pubblico in conseguenza del Deficit di Bilancio, una vertiginosa salita dello Spread. Non era raro ascoltare simili considerazioni anche sui TG nazionali.
Ritengo che oggigiorno questo tipo di analisi sia assolutamente improponibile. Sembra essere estrapolata da una valutazione degli economisti di fine ‘800. Infatti le teorie classiche dell’economia non tenevano in alcun conto il depauperamento dell’ambiente. Era questo semplicemente un parametro ignorato. Si riteneva che le risorse naturali fossero talmente grandi che l’impatto su di esse fosse irrilevante e comunque non importante. ” Le ricchezze naturali sono inesauribili, altrimenti non le potremmo ottenere gratuitamente. Non potendo essere moltiplicate né esaurite, esse non sono oggetto di studio delle scienze economiche”(Say, 1840). Tali concetti vengono in parte ripresi anche da Marx ed Hengel che considerano il patrimonio naturale “un dato elementare ed invariabile”.
Pian piano, da inizio ‘900 fino agli anni ’60 si cominciò ad inserire il parametro ambientale nelle valutazioni economiche, ma sempre marginalmente, ritenendo comunque esso non importante nel bilancio globale delle attività produttive industriali o antropiche. Questo fino agli anni ‘ 70 quando grazie alla discussione nata nei movimenti studenteschi del’68, si comincio’ a parlare di ecosostenibilita’. Si parlo’ per la prima volta di azione antropica nei limiti di un impatto sugli ecosistemi che non compromettesse la possibilita’ per le future generazioni di soddisfare i propri bisogni. La crisi del petrolio del ’73 evidenzio’ ancora di piú all’opinione pubblica come le risorse naturali non fossero infinite e che il risparmio energetico fosse una necessitá assoluta. Oggi è abbastanza normale sentir parlare di impatto dell’industrializzazione a livello mondiale, degli effetti sul clima per il rialzo delle temperature, di effetti della deforestazione oppure dell’inquinamento dei mari.
Buco dell’ozono, effetto serra, scioglimento dei ghiacci del polo, piogge acide, desertificazione, ecc. sono tutti concetti affrontati a livello di conferenze internazionali e addirittura incidono, almeno sulla carta, sulle politiche e scelte delle nazioni. I vari Trattati di Maastricht del 1992, il Protocollo di Kyoto del 1997 e per l’Italia il Decreto Ronchi, riconoscono il rischio dell’effetto antropico sulla biosfera e dettano criteri generali che i governi si impegnano a rispettare. Gli indirizzi di politica economica dei governi valutano, comunque, l’effetto globale delle scelte produttive spalmando l’impatto ambientale sull’intero territorio nazionale e quasi mai tenendo conto dei microsistemi locali.
Puo’ succedere allora, come nel caso di Taranto, che i problemi ambientali li paghi un territorio limitato, e che però il PIL generato in quel sito sia di importanza economica nazionale. Generalmente, accade che le varie attività produttive siano distribuite in modo abbastanza diffuso su un territorio sufficientemente vasto da non caratterizzarlo del tutto solo per una determinata e particolare attività. Ci sono sicuramente delle eccezioni e queste comportano spessissimo delle criticità ambientali. Da un punto di vista economico, una gran parte della popolazione che vive in quel territorio dipende redditualmente da quella specializzazione produttiva. Se a questo si dovesse aggiungere che quello specifico settore e’ anche definito strategico per l’economia nazionale, il territorio che lo ospita diventa vincolato in modo assai obbligato a quel tipo di economia.
È il caso Taranto. Nel finire degli anni’50 si decise di stravolgere gli equilibri del territorio della Città dei due mari e si puntò decisamente verso lo sviluppo industriale siderurgico. Le caratteristiche del territorio favorirono quella scelta che portò alla costruzione nei primi anni ’60 dell’Italsider a ridosso del quartiere Tamburi, in un zona agricola che vide l’abbattimento di decine di masserie e di circa 35.000 ulivi secolari. Fino ad allora l’economia di Taranto si basava soprattutto su agricoltura e pesca. In particolare la produzione olivicola e la coltivazione nel Mar Piccolo dei mitili erano considerati l’eccellenza in ambito meridionale e nazionale. Basti ricordare la cozza e l’ostrica tarantina, vera preziosità gastronomica, famosa in tutto il mondo.
Col trascorrere dei decenni, Taranto ha perso quasi completamente la vocazione agricola e marinara e anche l’arsenale militare, altro storico polo economico, con i cantieri navali, ha perso importanza, fino alla quasi totale inattività dei giorni nostri. Il colosso siderurgico, insieme alla raffineria ENI, costruita anch’essa nella stessa zona nel ’67, diventano quindi gli unici importanti settori economici della provincia di Taranto, e tutto il benessere economico del territorio sembra dipendere da quella che sarà poi definita monocultura dell’acciaio. Abbiamo quindi, per chi decide le politiche territoriali, l’obiettivo di difendere a tutti i costi un settore industriale strategico e una economia strategica. Tutti aspetti sicuramente importantissimi dal punto di vista macroeconomico.
Il problema e’ che il settore in oggetto e’ concentrato in un territorio limitato. Una risorsa di cui ne beneficiano migliaia di persone ma le cui gravi conseguenze ambientali ricadono solo sui tarantini. E allora se il concetto di PIL può essere accettato a livello di economia nazionale, tanto da giustificare addirittura l’intervento statale per salvare dalla chiusura la grande industria dell’acciaio, non è così a livello locale. Bob Kennedy diceva nel ’68: ” Il PIL misura tutto, tranne ciò per cui vale la pena di vivere”.
Il PIL generato a Taranto non può quindi essere considerato in alcun modo misura del benessere dei suoi abitanti e, malgrado spesso chi governa i territori se ne dimentichi, si comincia finalmente a inserire nei parametri di valutazione, oltre che il benessere economico anche ambiente, salute, istruzione, sicurezza, socialità, bellezza paesaggistica, qualità dei servizi, ecc. C’è un parametro assai complesso da spiegare che non compare in alcuna tabella di valutazione del benessere di un territorio e che spiega meglio di tutti, se analizzato da un punto di vista puramente scientifico, la tendenza allo sviluppo o alla decadenza di quell’area dal punto di vista ambientale, economico, sociale, sanitario, ecc.
Si tratta della variazione dell’ENTROPIA Per iniziare dobbiamo partire dalla fisica e in particolare dal I e II principio della termodinamica. Essi si riferiscono ai sistemi termodinamici chiusi, quelli cioè che non interferiscono con altri. I principio afferma: in un sistema termodinamico, l’energia non si crea e non si distrugge, ma si trasforma. II principio afferma: in un sistema chiuso, nelle trasformazioni spontanee, il disordine ( entropia) tende ad aumentare. Per rendere il concetto ai meno esperti, pensiamo come normalmente la tendenza naturale dello stato delle cose proceda verso il disordine. Immaginiamo della polvere ammucchiata in un cortile in un angolo. Con il passare del tempo e l’esposizione ai venti, questa polvere si disperderà in ogni zona del cortile, aumentando la sporcizia in esso e anche la fatica per pulirlo. Si andrà quindi verso una situazione di maggior disordine e omogeneità (la polvere sarà ovunque).
Diciamo quindi che in quel cortile l’entropia e’ aumentata.
I sistemi biologici e i viventi operano in modo tale da contrastare continuamente il naturale aumento di entropia. Più in generale, qualunque sistema che possa definirsi chiuso tende normalmente ad aumentare il disordine interno. Gli esempi che abbiamo visto non si riferiscono a sistemi chiusi in quanto c’e’ sempre interscambio di materie ed energie con l’esterno, ma comunque l’entropia cresce anche in essi. C’e’ ora da aggiungere a quanto detto che le forme di energia dispersa nell’ambiente come calore o immagazzinate nei rifiuti inutilizzabili, contribuiscono all’aumento dell’entropia. In natura l’entropia aumenta nelle trasformazioni che avvengono spontaneamente.
Nel processo di produzione industriale utilizziamo materie prime disordinate e le riaggreghiamo in maniera ordinata: si procede quindi ad un’inversione entropica, ad una sua diminuzione. Per far ciò utilizziamo energia in varie forme. Un’industria non è un sistema chiuso e parte della energia utilizzata per la trasformazione dei prodotti viene dispersa come calore che e’ una forma degradata di energia che porta aumento di entropia all’esterno del sistema. Inoltre la produzione industriale porta alla diffusione di scorie inquinanti che contengono anch’esse energia degradata che contribuisce ad aumentare il disordine. In definitiva, ad una diminuzione dell’entropia del prodotto industriale finito, corrisponde un suo aumento nell’ambiente esterno, nel rispetto delle leggi della termodinamica.
La produzione di acciaio e’ tra le attivitá industriali che portano ad una più elevata diminuzione dell’entropia, passando dal disordine del minerale ferroso, all’ordine delle molecole che compongono l’acciaio. Per fare ciò tantissima energia viene dissipata sotto forma di calore ed immagazzinata nei prodotti di scarto. Tale energia farà aumentare notevolmente l’entropia dell’ambiente esterno all’industria. Possiamo solo immaginare quanto 50 e più anni di produzione di acciaio a Taranto abbiano contribuito ad innalzare nel territorio limitrofo alla grande industria il livello di entropia e cioè di disordine. Centinaia di milioni di tonnellate di acciaio con un impiego di energia immenso, in parte dispersa nelle varie fasi industriali come calore e in parte imprigionata nei rifiuti industriali.
Certamente il territorio di Taranto non è un sistema chiuso e quindi esso scambia materia ed energia con le zone confinanti, ma sicuramente buona parte dell’aumento di entropia ha colpito questa zona. Pensiamo per esempio al Mar Piccolo, un mare quasi chiuso, che non può disperdere troppo facilmente gli inquinanti nei mari vicini. Riuscire a misurare quanto l’industria a Taranto abbia fatto aumentare l’entropia è cosa impossibile, ma senza dubbio si tratta di quantità enormi.
Se si potesse matematicamente conoscere l’esatto incremento di entropia e tutte le variabili del “sistema Taranto”, sarebbe addirittura inutile calcolare i livelli di inquinamento. Avremmo direttamente il grado di disturbo al sistema nel suo equilibrio e potremmo calcolarne l’effetto dannoso.
In cosa si traduce questo “aumento del disordine” nell’ambiente e nella vita individuale e collettiva degli abitanti di questa città? Possiamo solo fare delle ipotesi e azzardare delle deduzioni non supportate da studi scientifici, ma certamente verosimili. Pensiamo per esempio alla gran fatica che i sistemi biologici hanno dovuto sopportare per mantenere efficienza ed equilibrio nel contrastare l’aumento del disordine. Un aumento dell’entropia del sistema porta ad un maggior lavoro dei viventi per conservare il corretto funzionamento delle proprie cellule. Ogni cellula e’ una macchina perfetta e deve conservare sempre degli equilibri continui (PH, concentrazione di sostanze, struttura, ecc.).Per far ciò essa consuma energia.
Qualunque interferenza (introduzione di inquinanti, aumento di acidità dell’aria, aumento di temperatura) possiamo considerarla come un aumento del disordine (entropia) del sistema e la cellula dovrà lavorare di più per ripristinare il giusto equilibrio. Se poi pensiamo che il DNA cellulare e’ la massima espressione dell’ordine biologico in quanto deve rimanere immutato ed immutabile, capiamo perché un eccessiva crescita di entropia, portata a livelli molto alti, potrebbe tradursi nel tempo in alterazioni di questo doppio filamento con conseguente aumento del rischio di degenerazioni cellulari, modificando i geni trasmessi alle generazioni future.
In definitiva, l’aumento del disordine si traduce sempre in un maggior lavoro da parte del sistema e dei viventi (piante ed animali) per mantenerlo in equilibrio. Ciò è possibile fino ad un certo punto, fino a che il sistema ce la fa. Quando l’entropia del sistema incrementa in modo non compensabile il sistema collassa. Succede questo quando per esempio gli inquinanti tossici entrano nella catena alimentare o quando l’incidenza di malattie diventa anomala. A quel punto troppa energia (lavoro) sarebbe necessaria per ripristinare l’equilibrio.
Potremmo azzardare che l’aumento di entropia abbia delle ripercussioni anche negli equilibri sociali. Maggior disordine significa livellamento. In un territorio in cui gli equilibri sono saltati è più probabile che le eccellenze scompaiano (fuga di cervelli) e l’economia, il livello culturale, la solidarietà tendano ad appiattirsi. Quale la soluzione? In questo la fisica non ci aiuta, in quanto ci dice che nel sistema Universo l’entropia tenderà sempre ad aumentare. Sicuramente nel sistema Taranto potrebbero aiutarci la chiusura delle fonti di disequilibrio e le bonifiche che abbasserebbero il livello di entropia, seppur a scapito di un’area circostante dove verranno inviati i rifiuti provenienti dalla Città dei due mari.