Come già anticipato nei giorni scorsi, l’Ilva sarà sottoposta in amministrazione straordinaria secondo la legge Marzano, che sarà estesa “alle società che gestiscono almeno uno stabilimento industriale di interesse strategico nazionale”. Questa integrazione si è resa necessaria perché al momento l’Ilva è ancora di proprietà di un gruppo privato (i Riva) e non è attualmente in stato di insolvenza (presupposto essenziale per l’applicazione della Marzano) nonostante un EDIBTA (il margine operativo lordo) negativo e una perdita netta sui 20 milioni di euro al mese (così come dichiarato dal commissario Piero Gnudi durante l’audizione presso le commissioni Ambiente e Attività Produttive della Camera, anche se da mesi anche su questo aspetto circolano cifre di ogni tipo): il tutto per “garantire la prosecuzione dell’attività produttiva assicurando che le risorse aziendali siano prioritariamente destinate a tale scopo”.
L’entrata in amministrazione straordinaria, che per l’Ilva segnerà la fine del commissariamento iniziato nel giugno del 2013 sotto il governo Letta, partirà non prima della seconda metà di gennaio, per consentire al commissario Piero Gnudi, di pagare ai dipendenti diretti dell’azienda gli stipendi di dicembre (ogni 10 del mese vengono pagati i circa 1800 lavoratori degli stabilimenti di Genova e Cornigliano, mentre i 12 gli oltre 11mila di Taranto). Resta invece alquanto nebulosa la situazione delle ditte dell’indotto e dell’appalto Ilva (che tra Taranto e il resto d’Italia supera le 10mila unità), così come la posizione dei fornitori.
Il decreto varato mercoledì, attribuirà inoltre al commissario straordinario (che pare però saranno addirittura tre con funzioni diverse, Gnudi, il sub commissario Carruba e l’attuale direttore generale dello stabilimento tarantino Renon i nomi più accreditati) i poteri “per attuare le prescrizioni di carattere ambientale previste dall’Autorizzazione integrata ambientale”. Allo stesso commissario saranno destinate “le somme sequestrate all’Ilva, che confluiranno in una contabilità speciale. La gestione dell’impresa sarà considerata attività di pubblica utilità e gli interventi previsti dal piano ambientale vengono dichiarati urgenti e indifferibili” (operazione che comunque andranno le cose non tutelerà dal rischio cancerogeno migliaia di cittadini). Le somme sequestrate di cui si parla, sono in realtà quelle sequestrate al gruppo Riva (che secondo la Procura di Milano sarebbero risorse sottratte all’Ilva spa).
Risorse che Gnudi ha chiesto ed “ottenuto” dalla Procura di Milano che ha sbloccato, secondo quanto previsto dalla legge Terra dei Fuochi varata lo scorso febbraio (ed entrate in vigore lo scorso agosto), parte del “tesoro” offshore dei Riva: 1,2 miliardi di euro. Sblocco al momento del tutto virtuale (come abbiamo sin da subito sottolineato su queste colonne), sul quale pesa sia il ricorso in Cassazione presentato dai legali di Adriano Riva (che hanno sollevato eccezione di incostituzionalità), sia l’oggettiva difficoltà, o forse sarebbe meglio dire impossibilità (?), di ottenere i fondi intestati ad otto trust protetti nel paradiso fiscale dell’isola britannica del Jersey e depositati nelle casse delle banche svizzere Ubs e Aletti del gruppo Banco Popolare. Inoltre, le risorse liquide ammonterebbero a non più di 800 milioni di euro, di cui soltanto 164 milioni sono in Italia (come confermato sempre dal commissario Gnudi nell’audizione alle commissioni della Camera).
Il che, se le cose non cambieranno, esporrà il governo Renzi a più di qualche problema in merito all’attuazione del piano di risanamento ambientale, previsto dal Piano ambientale approvato la scorsa primavera dal governo che pare sarà rivisto nella sua applicazione temporale (cosa peraltro già avvenuta nel 2013 con la redazione del piano ambientale da parte dei tre esperti nominati dal ministro dell’Ambiente Galletti, che rividero nella tempistica le prescrizioni indicate dall’AIA rilasciata nell’ottobre del 2012 dall’allora ministro dell’Ambiente Clini). Discorso ancora più nebuloso invece, la futura formazione societaria dell’azienda. Prende sempre più piede l’ipotesi di ricorrere a Fintecna, la società pubblica trasferita dal Mef alla Cassa depositi e prestiti, e alla creazione di una new.co (che lascerà i debiti e le cause giudiziarie nell’attuale Ilva Spa, che si trasformerà in una bad company).
Del resto, soltanto Fintecna può realizzare un’operazione di traghettamento come quella pensata dal governo Renzi: nel suo statuto infatti, si legge che l’azione della società nella “gestione delle partecipazioni, attraverso una costante azione di indirizzo, coordinamento e controllo sia delle società con prospettive di uscita dal portafoglio (privatizzazioni-liquidazioni), sia delle partecipazioni destinate ad una permanenza più duratura nel contesto societario Fintecna, nell’ottica di valorizzare le relative attività” e nella gestione “specializzata di processi di liquidazione, finalizzata a perseguire economie di tempi, nonchè ad ottimizzare risorse e risultanze delle relative attività liquidatorie assicurando al contempo il più conveniente realizzo del patrimonio e l’attenta cura delle problematiche occupazionali”. Cosa che, come abbiamo già sostenuto in passato, potrebbe ‘salvare’ il governo italiano dalla scure dell’Unione Europea: ciò che interessa all’Ue non è la natura pubblica o privata della proprietà delle imprese, ma la tutela della concorrenza. In quest’ottica il versamento di denari in conto capitale dallo Stato a un’impresa non è di per sé un aiuto di Stato: tutto dipenderà dalle modalità, dai vincoli, dalle finalità del provvedimento governativo.
Incertezza che fa restare alta l’attenzione dei sindacati, visto che nella bozza del decreto non c’è, almeno al momento alcun riferimento alla questione occupazionale né alla sua conservazione dei posti attuali, così come di banche e Confindustria: le prime perché vantano crediti per 1,4 miliardi di euro, la seconda perché teme ripercussioni negative sull’indotto (da mesi in grande sofferenza) e sui fornitori (che attendono ancora un saldo di 440 milioni di euro). Preoccupazioni che si riflettono anche sullo stato reale della fabbrica, sulla quale da 3-4 anni i piani di manutenzione non sono stati applicati e dove la produzione del 2014 si fermerà a circa 4 milioni di tonnellate, contro i 9-11 di potenziale.
Fredda al momento la reazione della città. Divisa tra una politica locale che plaude all’iniziativa del governo, una diffidenza generale e la contrarietà delle associazioni ambientaliste. Per quanto riguarda Taranto, il decreto istituisce “un’unica governance interistituzionale” attraverso “uno specifico contratto istituzionale di sviluppo”, che sarà sottoscritto da un apposito Tavolo istituzionale permanente per l’area ionica, coordinato da Palazzo Chigi e da vari ministeri. Il Tavolo si occuperà della bonifica dell’area esterna all’Ilva, del porto e dell’Arsenale della Marina Militare. Previsto anche il potenziamento del dipartimento di Taranto dell’ARPA Puglia (che cadrà sul bilancio della Regione e non dello Stato) e l’autorizzazione per la Regione, nel 2015, a prevedere l’utilizzo di 30 milioni di euro (25 erano stati già stanziati dalla legge Terra dei Fuochi, ma sino ad ora poco o nulla si è visto) per la costituzione di un centro per la diagnosi e la cura dei tumori infantili, seguendo il solito leitmotiv delle nostre parti “curare è meglio che prevenire”. Ma siamo ancora alle tante troppe parole. E alle tante, troppe promesse.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 29.12.2014)
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