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Ilva, il fumo delle ciminiere e quello delle parole – Intervista a Giuliano Pavone

“A Taranto il cane, a furia di mordersi la coda, se l’è quasi staccata. Dicono che non ci si può permettere di rinunciare all’Ilva finche non si trova una risorsa alternativa, ma nessuno a livello istituzionale sembra volerla cercare davvero, questa alternativa”. E’  uno dei nodi affrontati da Giuliano Pavone nel suo ultimo saggio, “Venditori di fumo – Quello che gli italiani devono sapere sull’Ilva e su Taranto” (Ed. Barney), che in 250 pagine ripercorre le tappe della storia che lega la città ionica al più grande siderurgico d’Europa. Una storia che non può essere raccontata senza citare anche il passato meno recente ed un altro legame che ha fortemente condizionato la realtà tarantina: quello con la Marina Militare e il suo Arsenale. Esperienze contraddistinte da un unico filo conduttore:   l’industrializzazione calata dall’alto, derivata da scelte di politica nazionale e non dall’iniziativa dell’imprenditoria locale, incapace di muoversi in autonomia anche lungo strade alternative. E non si può parlare di Taranto senza confrontarsi con il fumo dei veleni e delle parole. Quello che appare sulla copertina richiama alla mente le nuvole cariche di inquinanti emesse dalle ciminiere del siderurgico. Ma c’è anche un altro genere di fumo, altrettanto pericoloso, che si è insinuato per anni nella vita dei tarantini nascondendo verità scomode e tutelando gli interessi di pochi. Una nebbia creata ad arte da protagonisti del mondo politico, imprenditoriale, sindacale e giornalistico. Complici di un disastro ambientale e sanitario che forse non troverà mai vera e definitiva giustizia, nonostante l’impegno della magistratura. Di questo e di altro abbiamo parlato con lo scrittore e giornalista tarantino che si divide tra Milano e la sua città.

Vivi da diversi anni lontano da Taranto. Cosa ti ha spinto ad occuparti di una vicenda vissuta a distanza?

«L’ho vissuta a distanza fino a un certo punto, perché torno spesso a Taranto e per esempio la calda estate del 2012 l’ho vissuta in città. E poi nell’epoca dei social network la distanza fisica conta meno che in passato. Per dire, il triste giorno del tornado fui io da Milano ad avvisare mia madre che, pur essendo a Taranto, non si era accorta di quanto fosse accaduto. La distanza magari mi ha fatto perdere qualche dettaglio, ma forse mi ha anche permesso di avere una visione d’insieme che a chi era più calato nei fatti magari rischiava di sfuggire. E un saggio, a differenza di un articolo di cronaca, è fatto più di visione d’insieme che di dettagli. Infine da fuori ho potuto constatare quanto poco (e quanto male) si sia informati su quanto sta succedendo nella città ionica. A Taranto, a volte, si ha la sensazione che tutto il mondo parli continuamente dell’Ilva, ma le cose stanno in modo molto diverso».

Nel libro parli di alcuni mali storici di Taranto tirando in ballo le responsabilità della borghesia e dell’imprenditoria locale. Vogliamo soffermarci sulle loro principali colpe?

«Bisogna sempre stare attenti a giudicare il passato col senno del poi, o a sentenziare sugli effetti senza riflettere sulle cause. La classe imprenditoriale tarantina, come è noto, è rimasta per molto tempo attaccata alla mammella della grande industria (l’Arsenale prima ancora del Siderurgico) e non ha certo brillato per coraggio, spirito di iniziativa, fantasia né tanto meno per attitudine al lavoro congiunto. Va però anche detto, considerando le due industrializzazioni “esogene” e le conseguenti trasformazioni demografiche “a strappi”, che difficilmente le cose potevano andare in altro modo. Taranto era un paesino di contadini e pescatori su cui due volte in ottant’anni è piombata improvvisamente un’enorme industria di Stato. Questo non vuole essere un alibi ma solo un tentativo di spiegare».

In un quadro fortemente deficitario (a livello politico, imprenditoriale, giornalistico) tu salvi la società civile citando le battaglie ambientaliste e il successo delle recenti iniziative partite dal basso. Va detto, però, che l’ambientalismo tarantino ha sempre patito un’eccessiva tendenza alla frammentazione e (talvolta) alla smania di protagonismo. Quanto hanno pesato questi elementi sul dialogo con la popolazione? Sul fatto, ad esempio, che si sia giunti impreparati al referendum sulla chiusura parziale o totale dell’Ilva?

«Credo che in questo momento l’associazionismo tarantino abbia più bisogno di prendere coscienza dei successi conseguiti e delle proprie potenzialità che di rimuginare su limiti ed errori che pure ci sono. In fondo si sono realizzate analisi scientifiche, fatti esposti alla magistratura, si è avviato un dialogo con le istituzioni europee, si sono organizzate manifestazioni affollatissime e non violente, si è messo su un concerto del Primo Maggio di altissimo livello dal nulla: difficile oggettivamente chiedere di più. Il referendum per me è stato un errore in partenza (i quesiti erano mal posti e si aveva tutto da perdere), affossato poi ulteriormente dalle circostanze (il ritardo, doloso, con cui è stato effettuato; il boicottaggio da parte di quasi tutti i soggetti istituzionali). Ma proprio in virtù di queste circostanze – e delle percentuali di afflusso alle urne, in caduta libera ormai in qualsiasi consultazione – trovo che il dato conseguito non sia da buttare via. Chi dice che ha vinto il no alla chiusura sostiene il falso. In decine di migliaia si sono pronunciati per il sì, mentre i contrari hanno deciso di nascondersi fra gli ignavi e i disinformati».

Non credi che a Taranto sia mancata una battaglia ecologista anche nei confronti dei guasti ambientali prodotti dalle attività dell’Arsenale Militare? Mi riferisco ovviamente all’inquinamento del primo seno di mar Piccolo (le cui responsabilità vanno ovviamente ripartite con l’Ilva) che ha costretto i mitilicoltori ad un esilio forzato.

«Credo che questo atteggiamento abbia due spiegazioni. La prima è di ordine culturale: la Marina continua a essere considerata la mamma buona della città, come la Siderurgia non è mai stata forse nemmeno ai tempi d’oro. Interessante a questo proposito un reportage de La Stampa negli anni 60, che cito in “Venditori di fumo”, sul ruolo che l’Ammiraglio continuava ad avere anche nella Taranto dell’Italsider. La seconda spiegazione è di carattere pratico: la Marina inquina soprattutto l’acqua. Il suo inquinamento non puzza e non emette fumi, e per questo è meno percepibile di quello di Ilva ed Eni».

Passiamo alla nota dolente rappresentata dal giornalismo locale. Non ci sono stati solo giornalisti collusi che si sono prestati spudoratamente ai giochi dei Riva, ma anche colleghi che si sono sempre tenuti distanti dal terreno della denuncia, salvo poi lasciarsi folgorare nel luglio del 2012 dall’inchiesta della Procura. Non ritieni che questo atteggiamento  comodo o rinunciatario abbia inciso sulla crescita della consapevolezza di una comunità informata sulle malefatte dell’Ilva solo da alcuni coraggiosi giornalisti?

«Indubbiamente sì. L’inchiesta “Ambiente Svenduto” sta facendo luce sui risvolti penali di queste vicende. Per il resto, in ogni campo, ci sono i pionieri che aprono la strada e gli altri che vi si buttano dentro solo in un secondo momento. Il giornalismo in questo non ha fatto eccezione, anche se, per il ruolo che dovrebbe ricoprire, avrebbe potuto e dovuto distinguersi».

Che idea ti sei fatto della lentezza con cui l’Ordine dei giornalisti di Puglia sta indagando sulle responsabilità dei giornalisti collusi e compiacenti, i cui nomi sono emersi dall’inchiesta “Ambiente Svenduto”?

«Non conosco i dettagli della questione, ma me ne sono fatto un’idea pessima. Così come ho un’idea pessima del fatto che molti di quei giornalisti collusi e compiacenti continuano tranquillamente a fare il proprio lavoro, più o meno alla luce del sole, magari facendosi anche belli con iniziative benefiche per la salute e per la vita. Purtroppo la gente non fa caso a queste cose, altrimenti credo che non comprerebbe certi giornali».

Come immagini il futuro, a breve e lungo termine, dell’Ilva e della città?

«E’ una domanda da un milione di dollari! Mancano ancora troppi elementi per poter fare una previsione a lungo termine, ma è invece evidente che le mosse dei tre governi che si sono succeduti dal 2012 a oggi vanno nella direzione del mantenimento in vita a tutti i costi della fabbrica, almeno nel breve, pur in assenza di prospettive promettenti. Purtroppo su queste scelte la società civile può fare qualcosa (vedi ricorso alla giustizia europea) ma non troppo. Dove invece si può fare la differenza è nell’immaginare, suggerire e contribuire a costruire delle alternative economiche realistiche per la città. Questa è una sfida decisiva che in un certo senso prescinde anche dai destini dell’Ilva. Perché in fondo – anche lasciando stare processi e questione ambientale – è già da trent’anni che la sola siderurgia non garantisce a Taranto dei tassi di benessere e occupazione accettabili».

Alessandra Congedo 

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