L’Ilva ogni mese perde infatti una cifra vicina ai 25 milioni di euro, ed ha accumulato debiti nei confronti dei fornitori per 350 milioni. Altri 50 quelli contratti con le aziende dell’indotto e dell’appalto. E che deve far fronte ad un piano di risanamento ambientale che ammonta a non meno di due miliardi di euro. Una voragine dentro la quale rischia di sprofondare la più grande azienda italiana, nonché il siderurgico più grande d’Europa. Che deve tra l’altro guardarsi le spalle dal processo per disastro ambientale portato avanti dalla Procura di Taranto, all’interno del quale sono state presentate richieste di risarcimento danni per oltre 30 miliardi di euro.
Un’accelerata dovuta anche al fatto che l’offerta non vincolante presentata dal gruppo franco indiano ArcelorMittal la scorsa settimana, ha confermato i paletti che da tempo hanno posto tutti i possibili acquirenti: ovvero la non disponibilità ad accollarsi i debiti pregressi e gli oneri derivanti dai vari interventi previsti dal piano ambientale. Risorse, quest’ultime, che Gnudi e il Governo hanno chiesto ed ottenuto dalla Procura di Milano che ha sbloccato, secondo quanto previsto dalla legge Terra dei Fuochi, parte del “tesoro” offshore dei Riva: 1,2 miliardi di euro. Sblocco sul quale però pesa sia il ricorso in Cassazione presentato dai legali di Adriano Riva, sia l’oggettiva difficoltà di ottenere dei fondi intestati ad otto trust nell’isola di Jersey e depositati nelle casse delle banche svizzere Ubs e Aletti del gruppo Banco Popolare.
Un ginepraio, quello dell’Ilva, quasi inestricabile. Per questo, la strada individuata dal governo, prevede l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, prevista dalla legge Marzano. Che però è applicabile in presenza di aziende in stato d’insolvenza: non è il caso dell’Ilva. Almeno per il momento. Visto che secondo fonti ben informate, lo scorso 26 luglio alcune ditte dell’indotto ed alcune società fornitrici del siderurgico, hanno depositato ricorsi per ingiunzione per mancato pagamento di svariate fatture. Una strada, questa, che porterebbe l’azienda direttamente al fallimento qualora il contenzioso giudiziario non venisse risolto.
A questo punto, l’idea da tempo in cantiere, sarebbe quella di seguire la strada scelta per salvare Alitalia. Rendere l’attuale Ilva spa una bad company nella quale confinare le cause ambientali e giudiziarie. E l’eventuale risarcimento danni in tema di bonifiche e nei confronti di enti e terzi coinvolti. Nella new company dovrebbero confluire invece le aziende del gruppo (oltre a Taranto, Genova e Novi Ligure), i 16.200 dipendenti diretti e i debiti riguardanti la sola attività produttiva.
Nella new.co, secondo l’idea del governo, dovrebbe entrare anche la Cassa Depositi e Prestiti (custode dei risparmi postali di milioni di italiani) attraverso il Fondo Strategico, holding di partecipazioni controllata all’80% dalla stessa Cdp ed al 20% dalla Banca d’Italia. Che acquisisce quote di minoranza di imprese di rilevante interesse nazionale in situazione di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale e che abbiano adeguate prospettive di redditività e di sviluppo.
In tutto ciò, in pochi paiono fare i conti con i due fattori più importanti. Il primo: l’Ilva è ancora di proprietà del gruppo Riva che detiene l’87% delle azioni. Il secondo: la vita e la salute dei tarantini. Che rischiano di non avere né giustizia, né risarcimenti. Oltre al concreto rischio di continuare ad ammalarsi e a morire per soddisfare gli “interessi” di Stato.
Gianmario Leone (Il Manifesto, 02.12.2014)
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