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Come salvare il Mar Piccolo? – Puntata n. 6

TARANTO – Come salvare il Mar Piccolo di Taranto dall’inquinamento e restituirlo in tutta la sua straordinaria unicità e bellezza alla città ed all’attività di mitilicoltura? E’ questa, da sempre, la domanda delle domande sul nostro bacino interno. Che da anni ci poniamo su queste colonne, insieme alla costante attività di inchiesta e di denuncia su chi ha causato nel corso del tempo il disastro ambientale del mar Piccolo (compito arduo e complesso che da sempre portiamo avanti insieme al sito inchiostroverde.it). La nostra posizione in merito è da sempre molto chiara: individuazione e messa in sicurezza di tutte le fonti inquinanti per poi consentire alla natura presente nel Mar Piccolo di fare il suo corso e così riportarlo al suo antico splendore.

Lo studio realizzato da ARPA Puglia, in collaborazione con tre istituti del CNR (l’IRSA, Istituto di Ricerca sulle Acque sede di Bari, lo IAMC, Istituto per l’ambiente marino costiero sede di Taranto e l’IRPI, Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica sede di Bari), il Politecnico di Bari e Conisma, dopo aver affrontato la “Predisposizione del modello di circolazione e risospensione dei sedimenti” e “l’individuazione delle fonti ancora attive e le dimensioni del loro inquinamento”, affronta proprio tre le ipotesi di intervento esaminate per il recupero del I seno del Mar Piccolo: il dragaggio, il capping o diversi biorimedi.

Aspetti emergenti e scenari di bonifica dei sedimenti contaminati dalle aree critiche e prioritarie del 1° seno del Mar Piccolo

Il quadro ambientale emerso, valutando tutti i dati e le informazioni sin qui disponibili per il Mar Piccolo, corroborato ed integrato dai risultati dello studio in questione, ha dimostrato ancora di più l’assoluta peculiarità e complessità del sistema-Mar Piccolo. Il modello “funzionale” del sito, derivato da tale contesto, ha infatti confermato per molti aspetti generali “la presenza di fonti potenzialmente ancora attive di contaminazione (primarie e secondarie), anche sotto condizioni e forzanti di tipo naturale o antropico, ha mostrato le principali vie di trasporto dei contaminanti (apporti delle acque di origine terrigena, risospensione dei sedimenti) e ha sottolineato gli impatti negativi degli stessi (PCB e metalli) sulla componente biologica, in particolare evidenziata dal bioaccumulo nei mitili”.

I risultati degli studi hanno, pertanto, hannorafforzato quanto già emerso dalle attività di caratterizzazione pregresse e sottolineato dalla Regione Puglia nel documento “Contaminazione da policlorobifenili (PCB) nel Mar Piccolo di Taranto” (del novembre 2011, il cui contenuto è stato riportato diverse volte nel corso degli anni su queste colonne e sul sito inchiostroverde.it) relativamente “all’esistenza di zone all’interno del 1° seno del Mar Piccolo (Area 170 ha e area a nord in prossimità degli ex cantieri Tosi) potenziali sorgenti attive di contaminazione veicolata dai sedimenti contaminati”.

Analogamente le stime, seppur preliminari, delle quantità di contaminanti veicolate dalla componente terrigena delle acque (fonte primaria) verso il 1° seno, sebbene appaiano attualmente non determinanti rispetto a quanto rilevato nei sedimenti, ma pur sempre ininterrotte, non hanno escluso che tale cronico apporto possa contribuire ad un complessivo deterioramento della qualità del sistema marino, innescando localmente situazioni di criticità, sommandosi al complesso degli impatti negativi sulle componenti ambientali.

Lo studio ha inoltre dimostrato un fattore di cui bisognerà tenere conto soprattutto in ottica bonifica: ovvero che i processi e le dinamiche esistenti all’interno del sistema ambientale e le numerose variabili di ordine naturale e/o antropico presenti “non consentono di restituire un’univoca soluzione d’intervento che sia sola, esclusiva e risolutiva delle criticità emergenti”.

Si è altresì delineata la convinzione, suffragata proprio dai risultati delle attività d’indagine, che “ad un unico modello rappresentativo del Mar Piccolo si associno, piuttosto, una serie di modelli ciascuno con un proprio scenario di riferimento e tra di loro strettamente interconnessi, in cui considerare ed attentamente pesare non solo le variabili tecnico-scientifiche ma anche e soprattutto le componenti di ordine sociale ed economico”.

Ma soprattutto, lo studio è assolutamente chiaro su un aspetto: e cioè che “conseguentemente le strategie d’intervento, finalizzate alla bonifica, si intrecciano e necessitano di un’opportuna ed attenta fase di discussione e condivisione tra i principali stakeholder, con una propedeutica decisione sulla destinazione d’uso dell’area, prima di poter arrivare ad una scelta progettuale che ne individui la/le migliori o una loro combinazione (considerata sia dal punto di vista spaziale sia temporale)”, sotto gli aspetti di efficacia ed efficienza, tra quelle ambientalmente, tecnologicamente ed economicamente attualmente disponibili (dragaggio, capping o reactive capping, bioremediation, monitored natural attenuation, ecc.).

Inoltre, va tenuto conto che a qualsiasi intervento di bonifica, o loro combinazione, dovrà comunque essere applicato il concetto di “sostenibilità”, intesa come un “processo di gestione e bonifica di un sito contaminato, finalizzato a identificare la migliore soluzione che massimizzi i benefici della sua esecuzione dal punto di vista ambientale, economico e sociale, tramite un processo decisionale condiviso con i portatori di interesse” (La possibile definizione Italiana di Sostenibilità Applicata alle Bonifiche, Sustainable Remediation Forum 2012).

Lo studio riporta poi alcune linee d’indirizzo generale sulle metodologie di bonifica applicabili (movimentazione, ricoprimento, attenuazione naturale) e che coinvolgono direttamente i sedimenti contaminati nelle aree ritenute prioritarie. Partendo, dal concetto generale di bonifica, “che per i SIN marino-costieri comprende tutti gli interventi, compresa la messa in sicurezza, volti a ripristinare la qualità ambientale eliminando o minimizzando i rischi (impatti) per l’ecosistema acquatico e, conseguentemente, per l’uomo”.

Per questo si sono considerati come interventi di bonifica perseguibili sui sedimenti maggiormente contaminati del 1° seno l’asportazione complessiva dei sedimenti mediante interventi di dragaggio ambientale (environmental/remedial dredging), da realizzarsi con tecniche di tipo meccanico o idraulico; la ricopertura dei sedimenti con tecniche di capping, finalizzate anche al ripristino idrogeomorfologico del fondale; la realizzazione di un programma di monitoraggio che valuti l’evoluzione e tendenza dell’attuale contaminazione riscontrata verso una sua “naturale” attenuazione, prevedendo anche interventi che ne possano accelerare o migliorare la perfomance.

Affinché ciascuno intervento o una loro progettazione integrata si traduca in un risultato di bonifica utile, sarà importante programmare un puntuale piano di monitoraggio estensivo di tutti gli interventi che permetta di valutare l’assenza di effetti negativi sull’ambiente circostante; l’efficienza delle misure di mitigazione scelte; l’efficacia complessiva dell’intervento.

Per completare il quadro generale, chi ha realizzato lo studio ha giustamente scelto di accompagnare tali scenari da un’analisi del “rischio” ambientale associato evidenziando, così, per ciascuno i pro e i contro della loro realizzazione. Anche lo studio, infine, ricorda che “a prescindere dal tipo e metodologia di intervento di bonifica ed a maggior ragione nel caso dei sedimenti contaminati, qualsiasi operazione dovrà essere realizzata solo quando la fonte attiva di contaminazione che ha provocato tale compromissione della matrice sia stata opportunamente e adeguatamente interrotta, contenuta o mitigata”.

Dragaggio dei fondali

Le attività di movimentazione dei fondali mediante dragaggio dei sedimenti comporta, in linea generale, una serie di conseguenze di tipo fisico e chimico che coinvolgono sia la componente abiotica, sia quella biologica dell’ecosistema acquatico, per questa ultima legate principalmente all’aumento della torbidità in colonna d’acqua dovuta ai sedimenti risospesi, ma anche alla rimozione/danneggiamento di eventuali biocenosi sensibili e/o ad alta valenza naturalistica presenti sui fondali.

Se ad essere movimentati sono i sedimenti contaminati, gli effetti negativi possono aumentare in quanto aumenta il rischio che ci sia anche una dispersione degli agenti contaminanti nell’ambiente circostante. Pertanto, con particolare riferimento a questo ultimo aspetto, lo studio sottolinea come sarà importante prevedere un approccio di tipo “ambientale” nella progettazione del dragaggio dei sedimenti contaminati, applicando anche un sistema di monitoraggio che riscontri gli impatti negativi per tutte le fasi relative all’intervento: allestimento del cantiere, rimozione del sedimento ed, infine, durante la sua successiva gestione (fasi di trasporto, stoccaggio temporaneo, eventuale trattamento e allontanamento definitivo del sedimento dragato). La soluzione tecnica dovrà essere, quindi, un giusto mix di esigenze di tipo operativo, logistico ed economico ma, soprattutto, di tipo ambientale.

Dal punto di vista della scelta della strumentazione di dragaggio più efficace in tal senso, nel corso degli anni, e man mano che hanno acquisito maggiore peso le esigenze di ordine precauzionale, si sono ideate alcune tipologie di draghe “di tipo ambientale” che, prevedendo adeguati accorgimenti costruttivi mirati ad impedire le perdite di materiale in colonna d’acqua, l’aggiunta di acqua al materiale dragato e migliorare la selettività del dragaggio, possono essere prese in considerazione. Le tecnologie attualmente a disposizione si dividono in due categorie: sistemi meccanici e sistemi idraulici.

Studi specifici di settore hanno anche confermato che, a parte le questioni di ordine tecnico-costruttivo, gli effetti negativi di un’operazione di dragaggio dipendono anche da un suo adeguato impiego e da caratteristiche sito specifiche (quali ad esempio la granulometria dei materiali coinvolti, e gli aspetti legati alla correntometria e alle condizioni meteomarine). L’estensione e la natura del plume di torbida sono quindi legati all’interazione di questi diversi fattori ed ai loro effetti reciproci. Domani, affronteremo meglio la questione dragaggi e le altre due strade percorribili per la bonifica del Mar Piccolo.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 17.11.2014)

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