Bonifica mar Piccolo, il rompicapo delle ipotesi: capping, dragaggi e biorimedi
TARANTO – Una situazione spaventosa. Roba da mettersi le mani tra i capelli. Vera Corbelli, commissario per le bonifiche di Taranto e Statte, parlò in questi termini dell’inquinamento da pcb e metalli pesanti del primo seno di mar Piccolo durante la sua audizione presso la Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. Un disastro ambientale che chiama in causa le responsabilità dell’Ilva e della Marina Militare.
Un nodo, quello legato alle attività dell’Arsenale Militare, spesso snobbato o sottostimato, sia dalle istituzioni che dall’opinione pubblica. Tanto che la Corbelli, in quella occasione, rivolse un appello ai parlamentari: “C’è da interessare anche la Marina Militare”. Per noi è logico pensare ai ritardi con cui si sta procedendo alla messa in sicurezza delle aree di competenza della Marina Militare: area 170, ex area IP e “Zona Gittata” (di cui abbiamo ampiamente trattato insieme al collega Gianmario Leone del TarantoOggi). E senza i dovuti interventi, la contaminazione non si arresta.
Durante l’audizione “romana” si parlò anche dei possibili interventi da attuare per la bonifica del mar Piccolo. Tre le ipotesi in campo, ma nessuna di queste sembra essere – da sola – la soluzione ideale: dragaggio, capping ed evoluzione naturale (assistita) del sistema ambientale. “E’ inutile che ci si avvii ora verso il capping o il dragaggio -sottolineò la Corbelli – la situazione è talmente compromessa che prima di intervenire bisogna pensarci bene. Smuovere qualcosa può ampliare il problema”. Insomma, siamo in presenza di un vero e proprio rompicapo. Ciò si evince anche dalla volontà della Corbelli di far svolgere ulteriori approfondimenti rispetto allo studio elaborato da Arpa Puglia in collaborazione con Cnr e altri enti, pubblicato in anteprima da InchiostroVerde lunedì scorso. Un documento rimasto top secret per ben sette mesi. Ma cosa dice lo studio sulle tecniche di risanamento?
C’è una frase illuminante contenuta nel report: “Qualsiasi decisione riguardo la scelta del possibile intervento non può prescindere dalla definizione degli obiettivi di bonifica”. Vale a dire: le istituzioni devono decidere, una volta per tutte, che destinazione d’uso vogliono assegnare al primo seno del mar Piccolo: favorire il ritorno della mitilicoltura? Consentire speculazioni legate al sorgere di porticcioli? Creare una riserva marina protetta? Solo in base alla scelta operata si potranno scegliere le modalità di intervento più adatte. Di queste modalità, comunque, si parla dettagliatamente nella relazione curata dal dottor Nicola Ungaro e dal dottor Giuseppe Trinchera (Arpa Puglia), di cui riportiamo alcuni stralci. Buona lettura.
Alessandra Congedo
© Copyright 2014 — Inchiostro Verde. Tutti i diritti riservati.
Le attività di movimentazione dei fondali mediante dragaggio dei sedimenti comporta, in linea generale, una serie di conseguenze di tipo fisico e chimico che coinvolgono sia la componente abiotica, sia quella biologica dell’ecosistema acquatico, per questa ultima legate principalmente all’aumento della torbidità in colonna d’acqua dovuta ai sedimenti risospesi, ma anche alla rimozione/danneggiamento di eventuali biocenosi sensibili e/o ad alta valenza naturalistica presenti sui fondali.
Se ad essere movimentati sono i sedimenti contaminati, gli effetti negativi possono aumentare in quanto aumenta il rischio che ci sia anche una dispersione degli agenti contaminanti nell’ambiente circostante. Pertanto, con particolare riferimento a questo ultimo aspetto, sarà importante prevedere un approccio di tipo “ambientale” nella progettazione del dragaggio dei sedimenti contaminati, applicando anche un sistema di monitoraggio che riscontri gli impatti negativi per tutte le fasi relative all’intervento: allestimento del cantiere, rimozione del sedimento ed, infine, durante la sua successiva gestione (fasi di trasporto, stoccaggio temporaneo, eventuale trattamento e allontanamento definitivo del sedimento dragato). La soluzione tecnica dovrà essere, quindi, un giusto mix di esigenze di tipo operativo, logistico ed economico ma, soprattutto, di tipo ambientale.
Dal punto di vista della scelta della strumentazione di dragaggio più efficace in tal senso, nel corso degli anni, e man mano che hanno acquisito maggiore peso le esigenze di ordine precauzionale, si sono ideate alcune tipologie di draghe “di tipo ambientale” che, prevedendo adeguati accorgimenti costruttivi mirati ad impedire le perdite di materiale in colonna d’acqua, l’aggiunta di acqua al materiale dragato e migliorare la selettività del dragaggio, possono essere prese in considerazione. Le tecnologie attualmente a disposizione si dividono in due categorie: sistemi meccanici e sistemi idraulici.
Studi specifici di settore hanno anche confermato che, a parte le questioni di ordine tecnico-costruttivo, gli effetti negativi di un’operazione di dragaggio dipendono anche da un suo adeguato impiego e da caratteristiche sito specifiche (quali ad esempio la granulometria dei materiali coinvolti, e gli aspetti legati alla correntometria e alle condizioni meteomarine). L’estensione e la natura del plume di torbida sono quindi legati all’interazione di questi diversi fattori ed ai loro effetti reciproci.
Il capping è una tecnologia di contenimento/isolamento progettata per la messa in sicurezza in situ dei sedimenti contaminati, realizzata disponendo una copertura costituita da uno o più stati di materiale adeguato per granulometria e privo, a sua volta, di evidenze di contaminazione. Tale operazione, pur lasciando i sedimenti contaminati in sito, interrompe il loro contatto con l’ambiente acquatico circostante, limitandone così l’esposizione e tendendo ad immobilizzare i contaminanti nei sedimenti stessi. Coperture innovative, definite “reattive”, comprendono all’interno elementi permeabili o impermeabili in più strati, contenenti composti da materiali (resine, additivi, ecc.) che garantiscono una maggiore attenuazione del flusso dei contaminanti.
Può essere realizzato singolarmente o in combinazione con altre tecnologie: ad esempio, dopo una parziale rimozione dei sedimenti, o per rafforzare il recupero naturale (Natural Monitoring Attenuation), quando la velocità di sedimentazione naturale non è sufficiente. Il capping tradizionale è costituito da uno strato di terreno pulito a grana grossa che viene in genere ricoperto da uno strato di protezione costituito da materiale ancora più grossolano (ghiaia, ciottoli e/o massi).
Lo spessore del capping e la composizione dei suoi componenti vanno progettati tenendo conto delle condizioni del sito (tipo e quantità di inquinanti e distribuzione nell’area, batimetria e correntometria, caratteristiche fisiche e meccaniche dei sedimenti, habitat naturale, ecc.), della funzione che il capping deve svolgere e dell’arco di tempo in cui tale funzione deve essere garantita. In genere ad un singolo strato è associata una specifica funzione. In un intervento di capping devono, quindi, essere considerate le caratteristiche e le forzanti sito specifiche dell’intero “sistema bacino” in cui l’area si colloca.
Poiché la finalità è quella di stabilizzare i sedimenti contaminati, è necessario, quindi, che questi siano protetti dall’erosione operata delle correnti acquatiche in modo da prevenire la risospensione ed il trasporto di questi verso altri corpi ricettori; isolare fisicamente i sedimenti dagli organismi bentonici (evitare bioturbazione), che interagiscono con essi mescolandoli e muovendoli, contribuendo al rilascio di contaminanti in acqua; isolare chimicamente i sedimenti per ridurre il flusso di contaminanti disciolti o colloidali nell’acqua.
Poiché i siti contaminati sono, tendenzialmente, costituiti da depositi di sedimenti a granulometria fine, uno strato di materiale grossolano, con porosità molto maggiore di quella dei sedimenti contaminati sottostanti, non sarebbe adatto a garantire la stabilità del capping. In genere, quindi, si pone un filtro (tendenzialmente geosintetico, rappresentato da geomembrane semipermeabili e geotessili permeabili), o uno strato di materiale di porosimetria intermedia tra la parte più fine e quella più grossolana del sedimento. Tale filtro deve comunque assolvere la funzione di lasciar passare l’acqua, pur impedendo il passaggio delle particelle solide più fini, ed evitare la formazione di gas dovuta alla degradazione della sostanze organiche contenute nei sedimenti contaminati.
I materiali solitamente impiegati per le coperture sono la sabbia, il limo e l’argilla. Le caratteristiche fisiche e chimiche dei materiali devono essere compatibili con l’ambiente nel quale verranno posti. La sabbia è relativamente economica, stabile anche su pendenze abbastanza elevate ed attrae specie di organismi che non hanno la capacità di penetrare in profondità. Pertanto, risulta essere particolarmente efficace nell’isolare i sedimenti contaminati dagli organismi bentonici e dalla colonna d’acqua sovrastante e nello stabilizzare i sedimenti e proteggerli dall’erosione. Tuttavia, la sabbia ha una ridotta capacità di adsorbimento, quindi contribuisce in minor misura, rispetto al materiale fine, a rallentare la migrazione dei contaminanti. Per questa ragione, è utile che lo strato di capping, pur se prevalentemente sabbioso, contenga una frazione di materiale fine e di carbonio organico che garantisce una maggiore capacità di contenimento delle sostanze inquinanti.
Nel caso si utilizzino materiali a granulometria fine, come limo ed argilla, servirà valutare dal punto di vista della posa in opera la maggior tendenza alla risospensione che hanno questi materiali e la maggiore instabilità della copertura per la minore resistenza al taglio e l’alto contenuto d’acqua. Inoltre, essi sono particolarmente sensibili alla colonizzazione da parte degli organismi bentonici innescando, conseguentemente, processi di bioturbazione del materiale. Tuttavia, il materiale fine, grazie alla sua attitudine coesiva, rappresenta un’efficace barriera al flusso di contaminanti dovuto ai meccanismi di avvezione e di diffusione della contaminazione.
Quando il capping deve garantire un livello di protezione dall’erosione molto elevato è possibile incrementare il suo spessore oppure sovrapporre allo strato di terreno a grana fine uno strato di materiale granulare (ghiaia e ciottoli). Un aspetto cruciale nella realizzazione di questo intervento è relativo alla sua messa in opera in quanto potrebbero innescarsi fenomeni di risospensione, anche consistenti, causati dalla caduta del materiale di ricoprimento sui sedimenti da ricoprire e, pertanto, vanno controllati con cura i mezzi da utilizzare, le velocità da impiegare e le aree di fondale da coprire.
Dal punto di vista strutturale, durante la realizzazione di un capping, sia i sedimenti contaminati sia il materiale costituente il capping, subiscono un cedimento indotto dal processo di consolidazione innescato dal peso proprio degli strati sovrastanti. Mentre il processo di consolidazione degli strati di capping porta ad una diminuzione della porosità intrinseca del materiale, a vantaggio dell’isolamento della contaminazione, nel caso dei sedimenti contaminati questa attività provoca la progressiva espulsione dell’acqua interstiziale presente verso il basso e lateralmente. Anche tale aspetto dovrà essere attentamente valutato in fase di progettazione.
EVOLUZIONE (ASSISTITA) DEL SISTEMA AMBIENTALE
Con il termine “attenuazione naturale” si fa riferimento ai casi in cui il risanamento/bonifica di un sito contaminato si basa sulla capacità potenziale che hanno i processi naturali, in esso presenti, di intaccare la contaminazione riducendone la concentrazione. I processi coinvolti includono aspetti di tipo fisico, chimico e/o biologico che, sotto condizioni favorevoli, agiscono senza l’intervento antropico per ridurre la massa, la tossicità, la mobilità, il volume e le concentrazioni degli inquinanti nelle matrici compromesse. Questi processi in situ includono la biodegradazione, la dispersione la diluizione, l’adsorbimento, la volatilizzazione, la stabilizzazione chimica o biologica, la trasformazione o la distruzione dei contaminanti.
L’Environmental Protection Agency (EPA) attribuisce alla MNR il ruolo di remediation option quando: la sorgente della contaminazione sia stata rimossa; i processi di diluizione o di sedimentazione si realizzino con tempistiche “ragionevoli”, in funzione degli aspetti ambientali e socio-economici considerati; i sedimenti non subiscano movimentazioni legate ad attività umane o naturali se non quelle (eventualmente) collegate all’intervento; le azioni di bonifica “canoniche” (dragaggio, capping) risultino eccessivamente impattanti dal punto di vista ecologico ed economico.
Talvolta l’attenuazione naturale è associata erroneamente all’approccio “non fare nulla” (o ipotesi zero, donothing) nel procedimento di bonifica di un sito contaminato. In realtà, essendo l’attenuazione naturale un procedimento con cui i processi naturali intervengono trasformando i contaminati presenti verso composti ambientalmente meno reattivi, la scelta di questa opzione di bonifica va di pari passo con la progettazione di un attento e puntuale piano di verifica e monitoraggio di tali processi naturali di rimediazione (monitoring natural attenuation), piuttosto che sull’uso di processi ingegnerizzati (es. capping) o di rimozione (dragaggio). Prima di poter proporre tale approccio, pertanto, è importante avere il quadro ambientale e sito specifico ben chiaro, dal punto di vista delle componenti, delle dinamiche e dell’evoluzione, che permetta di valutare la fattibilità di tale processo e la sua possibilità di successo sia dal punto di vista tecnico sia da quello temporale.
Inoltre, se si decide di procedere lungo tale strada, occorre verificare che, i processi di attenuazione naturale non comportino, prima del loro innesco efficace, la presenza prolungata dei contaminanti medesimi e non contemplino la formazione di eventuali prodotti intermedi della decontaminazione che risultino ugualmente tossici per l’ambiente circostante e che, quindi, nel complesso il rischio ambientale (e sanitario) ad essi associato sia in qualche modo prevedibile ed accettabile.
Altri aspetti che vanno opportunamente considerati per la decisione finale, che faccia propendere per questa ipotesi di intervento, sono rappresentati da un lato dall’assenza di potenziali recettori sensibili (flora e fauna acquatica protetta, l’uomo) nell’area oggetto degli interventi e/o in zone contigue ed analogamente interessate, e dall’altro da aspetti che coinvolgono le limitazioni d’uso dell’area, che potrà essere riutilizzata non prima che sia stata completamente decontaminata (es. limitazioni al traffico navale in termini di traiettorie, velocità, pescaggi consentiti, limitazione di acquacoltura).
Un’ipotesi di attenuazione naturale potenziata, che intervenga migliorando le tempistiche e l’efficienza di attuazione dei processi naturali, può prevedere un intervento “assistito” da parte dell’uomo che migliori, potenzi e/o induca gli stessi processi chimico-fisici e biologici (biodegradazione, adsorbimento, reazioni chimiche, dispersione e diluizione, ecc.). Questo tipo di opzione potrebbe coniugare e mutuamente soddisfare sia esigenze di tipo ecologico-ambientali, progettando un intervento per alcuni aspetti meno invasivo (come invece potrebbe essere un intervento di dragaggio o di capping) e maggiormente sostenibile, sia aspetti di ordine sociale ed economico, coinvolgendo nell’attuazione degli interventi anche altri portatori d’interesse che fin dalla stessa realizzazione dell’intervento possono trarre un lecito profitto.