Il Decreto Sblocca Italia, seppur corretto su aspetti secondari alla Camera, dà carta bianca agli appetiti dei petrolieri, di un’Italia trasformata in colonia per le trivelle. Ma Greenpeace Italia, Legambiente e WWF Italia – dopo il voto di fiducia del 23 ottobre a Montecitorio e in attesa del voto finale del 30 – rilanciano la loro iniziativa apprestandosi a chiedere al Senato l’abrogazione dell’art. 38 del decreto 133/2014, appellandosi alle Regioni perché lo impugnino davanti alla Corte Costituzionale e amplificando la mobilitazione esistente sul territorio, che si oppone alla forzatura dirigistica per le valutazioni ambientali e per il rilascio di concessione uniche per la ricerca e la coltivazione di idrocarburi voluta dal Ministero dello Sviluppo Economico.
In tutte le regioni interessate dalla mobilitazione di questi giorni (come anche nella Sardegna Nord Occidentale e nel Canale di Sicilia) sono l’ENI e le compagnie straniere – come la Northern Petroleum, la Petroceltic, la Global Petroleum, la Spectrum geo limited, la Geo Service Asia Pacific – a farla da padrone a mare, mentre a terra il dominio del’ENI è incontrastato nel nostro Paese, grazie a royalties che sono in Italia da 2 a 8 volte più basse che nel resto del mondo e a canoni di concessione ridicoli. Condizioni di favore per i petrolieri che consentono di mettere a rischio in Puglia zone costiere protette come Torre Guaceto o aree marine protette come le Tremiti; di porre sotto la servitù petrolifera su ¾ del territorio della Basilicata e di tenere in ostaggio il parco nazionale dell’Appennino lucano Val D’Agri, e di minacciare l’istituendo parco nazionale della Costa Teatina, con lo scellerato progetto della piattaforma e nave di stoccaggio galleggiante di Ombrina Mare.
È quindi la Basilicata a subire i maggiori impatti delle attività petrolifere a terra, dove dalle 3 concessioni petrolifere attive (a Gorgoglione, a Serra Pizzuta e in particolare, in Val d’Agri) proviene oltre il 70% del petrolio estratto in Italia. Le aree in concessione per l’estrazione di petrolio a terra occupano una superficie di circa mille chilometri quadrati, ma l’area ipotecata alle attività petrolifere potrebbe aumentare nei prossimi anni, se andassero in porto tutte le richieste, arrivando a coprire 2800 kmq circa. A preoccupare ci sono anche i 29.200 kmq dei mari italiani messi sotto scacco dalle compagnie petrolifere. Il Mar Adriatico ha 11.944 kmq interessati da 2 istanze di concessione, 17 istanze di ricerca e 7 permessi già rilasciati per l’esplorazione dei fondali marini. Il Mar Ionio vede 10.311 kmq per 16 richieste di ricerca, 1 di coltivazione e 1 permesso di ricerca già attivo. Il Canale di Sicilia ha infine 6.954 kmq interessati da 3 richieste di concessione, 10 istanze di ricerca e 5 permessi di ricerca già rilasciati.
Il calcolo costi-benefici dell’impatto economico, sociale e ambientale dell’operazione caldeggiata irresponsabilmente dal Ministero dello Sviluppo Economico è assolutamente perdente per il Paese, quando si pensi che l’inquinamento sistematico e il rischio di incidente mettono a rischio aree di pregio naturalistico e paesaggistico, dove si svolgono fiorenti attività economiche legate ai settori delle pesca e del turismo per cercare di estrarre petrolio di bassa qualità che potrebbe coprire, valutate le riserve certe a terra e a mare, il fabbisogno nazionale per appena 13 mesi.
Ed è proprio sul lato dei costi per la comunità nazionale che i conti continuano a non tornare, sottolineano gli ambientalisti, che comunque valutano come la mobilitazione di queste due settimane abbia indotto la Commissione Ambiente della Camera dei deputati a introdurre prime, timide correzioni, a conferma della fondatezza delle tesi sostenute dagli ambientalisti. La Commissione ha corretto il testo dell’art. 38 del decreto Sblocca Italia presentato dal Governo riconoscendo, almeno: a) la necessità di fare un piano delle aree in cui consentire le attività di ricerca, prospezione e coltivazione di idrocarburi; b) ricorrere alla procedura Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) ordinaria, derivante dal Codice Ambiente, più garantista per cittadini e enti locali, nel valutare progetti e interventi di quella derivante dal Codice Appalti; c) verificare, prima di rilasciare le autorizzazioni, che gli operatori dimostrino, con idonee fideiussioni bancarie e assicurative, la propria capacità tecnica e finanziaria per far fronte alle operazioni di recupero ambientale.
Ma queste prime limitate modifiche introdotte alla Camera non cambiano la portata negativa delle disposizioni dell’attuale dell’art. 38 del decreto legge n. 133/2014 che il Senato dovrà correggere. Disposizioni che, ricordano Greenpeace Italia, Legambiente e WWF: 1) consentono di applicare le procedure semplificate e accelerate sulle infrastrutture strategiche ad una intera categoria di interventi, senza che vengano individuate le priorità e senza che venga chiarito se il “piano delle aree”, come previsto dalle leggi vigenti, si applichi la Valutazione Ambientale Strategica; 2) trasferiscono d’autorità nel marzo 2015 le procedure di VIA sulle attività a terradalle Regioni al Ministero dell’Ambiente; 3) compiono una forzatura rispetto alle competenze concorrenti tra Stato e Regioni, cui al vigente Titolo V della Costituzione, non prevedendo che sono necessarie “intese forti” con le Regioni; 4) prevedono una concessione unica per ricerca e coltivazione, in contrasto con la distinzione comunitaria tra le autorizzazioni per prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi; 5) trasformano forzosamente gli studi del Ministero dell’Ambiente sul rischio subsidenza in Alto Adriatico, derivante dalle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, in “progetti sperimentali di coltivazione”; 6) costituiscono una distorsione rispetto alla tutela estesa dell’ambiente e della biodiversità, rispetto a quanto disposto dalla Direttiva Offshore 2013/30/UE e dalla nuova Direttiva 2014/52/UE sulla Valutazione di Impatto Ambientale.
NOTA STAMPA
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