Cementir, cronaca di una chiusura annunciata
La vicenda della Cementir ci ricorda da lontano, anche se per motivi diversi, quella del progetto “Tempa Rossa”. Il progetto dell’Eni sul quale questa città, le istituzioni e quant’altri, si sono svegliati ancora una volta con colpevole ed oramai irrimediabile ritardo.
E’ infatti esattamente dal 17 aprile del 2013 che è chiaro come il sole che il gruppo Caltagirone avesse deciso di chiudere lo stabilimento tarantino. Quel giorno, durante il Cda in cui si approvava il bilancio 2012 del gruppo, Caltagirone Jr annunciò il congelamento dell’investimento di oltre 150 milioni di euro chiamato “Nuova Taranto”, destinato all’“ampliamento degli impianti produttivi esistenti ed il recupero di efficienza e competitività dello stabilimento produttivo di Taranto” esistente dal 1964, giudicandolo non più conveniente per il gruppo. Un chiaro campanello d’allarme che riportammo l’indomani su queste colonne e che rimase del tutto inascoltato.
Poi, due mesi dopo, era esattamente il 18 giugno 2013, durante l’audizione in commissione Ambiente ed Ecologia del Comune di Taranto, il direttore dello stabilimento Paolo Graziani e il direttore di Cementir Italia Mario De Gennaro, confermarono il congelamento dell’investimento ed annunciarono che a partire dal 1° gennaio 2014, qualora la situazione di mercato e dell’Ilva non avesse mostrato inversioni di tendenza importanti, il sito di Taranto sarebbe stato trasformato in centro di macinazione (ipotesi ribadita dall’azienda anche nel tavolo nazionale a Roma sulla Cementir dell’11 luglio). Poi, il 19 settembre dello scorso anno a Roma, si tenne l’incontro con i sindacati nel quale fu sottoscritto l’accordo per la cassa integrazione straordinaria per “crisi aziendale” a turno per dodici mesi per i 98 lavoratori del sito tarantino. Cassa integrazione che scade esattamente venerdì.
Inoltre, il 10 settembre e il 18 novembre dello scorso anno, su queste colonne segnalammo altre preoccupanti avvisaglie per il futuro del sito tarantino, restando ancora una volta inascoltati. Già nel mese di settembre Equita, banca d’investimento italiana con sede a Milano, annunciava la negoziazione da parte di Cementir di un piano di ristrutturazione in Italia “che porterà ad un totale di circa 150 esuberi” e che prevede “la trasformazione dei cementifici di Arquata e di Taranto” la cui capacità installata, di circa 2,2 milioni di tonnellate, è pari al 50% della capacità del gruppo in Italia. Nel mese di ottobre era invece la Kepler Cheuvreux (società indipendente di servizi finanziari specializzata in servizi di consulenza e di intermediazione per il settore della gestione degli investimenti), a diffondere un nuovo report sul settore delle costruzioni. Nel quale individuò tre fattori chiave che avrebbero implementato la redditività di Cementir: in primis, ancora una volta, “il taglio dei costi in Italia, tramite l’arresto delle produzione di clinker nel sito di Arquata Scrivia (0,8 milioni di tonnellate) e nell’impianto di Taranto (1,3 milioni di tonnellate) a partire da gennaio 2014. Cementir bloccherà così il 52% della produzione italiana del componente base del cemento”.
A seguire, arrivarono altri due segnali inequivocabili sul futuro della Cementir a Taranto. Nel progetto di copertura del parco loppa dell’Ilva (che dovrebbe avere gli ultimi permessi a costruire entro le prossime settimane, mancano infatti quello dei Vigili del Fuoco, della ASL e quello del SUAP), annunciato dall’azienda lo scorso 26 novembre, si leggeva che “il deposito del si estenderà su una superficie di oltre 26.000 mq per una capacità di accumulo di 230.000 tonnellate”. Considerando che il cementificio ha sempre consumato tra le 800.000 e il milione di tonnellate di loppa all’anno e che Cementir si era dichiarata disponibile a riceverne tra le 400mila e le 600mila a fronte del futuro ridimensionamento produttivo dell’Ilva, il dato non lasciava adito ad altre congetture. Visto che la Cementir è a Taranto soltanto grazie alla presenza del siderurgico.
Inoltre, un altro importante segnale arrivò dopo l’incontro tra l’azienda e l’Autorità Portuale dello scorso 13 dicembre. La Cementir doveva infatti fare spazio sulla stessa calata alla Terminal Rinfuse ed alla consorziata Italcave, per lasciare l’area del molo polisettoriale alla TCT (Taranto Container Terminal), come previsto dall’accordo tra TCT ed Authority sottoscritto il 3 luglio 2013. Al termine dell’incontro, l’Autorità portuale tenne a precisare che le decisioni sulla calata quattro “non hanno e non avranno diretta influenza in merito alla permanenza della Cementir a Taranto. se la Cementir ha deciso di ridimensionare la sua presenza a Taranto, lo fa anzitutto per altri motivi e non certo per un problema di utilizzo di banchine”.
Infine, il 18 dicembre 2013, sempre come riportato su queste colonne, il presidente ed a.d. di Cementir Holding Francesco Caltagirone jr., nel corso della conference call per la presentazione del piano industriale 2014-2016 approvato il giorno prima dal Cda, confermò quello che in realtà si sapeva da mesi: la riorganizzazione degli stabilimenti italiani, che garantirà al gruppo Cementir un risparmio di ben 7 milioni di euro, il cui beneficio inizierà a farsi sentire “già a partire dal 2014”. Precisando, qualora ce ne fosse ulteriormente bisogno, che la “riorganizzazione” avrebbe riguardato gli stabilimenti di Taranto e Arquata Scrivia, con la chiusura delle relative aree a caldo.
Confermando, quindi, quanto annunciato dalla stessa azienda ai sindacati di categoria nell’incontro del 6 dicembre 2013: la cessazione per il sito di Taranto della produzione di cemento a partire dalla fine dello stesso mese, con la conseguente trasformazione, dal 1 gennaio 2014, in centro di macinazione (all’incontro erano presenti le confederazioni sindacali di Taranto e i sindacati degli edili, Fillea, Filca e Feneal sia nazionali che provinciali).
Ridimensionamento che avrebbe inoltre comportato una riduzione notevole di fabbisogno di personale: dalle allora attuali 98 unità si sarebbe passati alle 42 con una riduzione della forza lavoro di ben 56 dipendenti. Da quel momento infatti, si registrò una forte riduzione nelle attività produttive con la chiusura dell’area a caldo e con l’utilizzo di prodotti semi lavorati forniti da imprese esterne, collocando in cassa integrazione straordinaria circa il 50% della forza lavoro.
Poi, il 23 gennaio scorso, dopo una serie di incontri tra azienda e sindacati, si svolse una riunione in Regione. Durante la quale l’azienda confermò, una volta di più, che la situazione di mercato non consentiva di mantenere in vita l’accordo dello scorso settembre (che prevedeva ancora una minima possibilità di investimenti), obbligandola alla revisione dei progetti a causa della crisi. La Regione ha provato in più occasioni ad ottenere un tavolo al Mise, con scarsi se non inesistenti risultati.
Come testimonia la lettera che l’assessore regionale al Lavoro Leo Caroli inviò ai segretari generali confederali di Cgil, Cisl e Uil di Taranto il 15 febbraio scorso. Nella quale, oltre a sottolineare lo scarso interesse del ministero in merito alla vertenza in essere, si leggeva la presa d’atto “della rinuncia del Gruppo ad investire a Taranto e della conseguente scelta di ridimensionare la produzione del cemento in Italia”.
Dopo di che, della vertenza si sono perse le tracce. Il tutto è caduto nel silenzio più totale. Anche su queste colonne infatti, abbiamo soltanto riportato i vari dati economici del gruppo, e soprattutto i progetti futuri. Con la chiara intenzione della Cementir di investire, nei prossimi mesi, ben 500 milioni di euro in Estremo Oriente, a fronte del fatto che già oggi l’azienda ottiene quasi il 90% dei ricavi fuori dall’Italia (in particolare da Scandinavia e Turchia).
Ieri, “stranamente” in concomitanza con le elezioni delle RSU ed a soli tre giorni dalla scadenza della cassa integrazione straordinaria, Feneal Uil, Filca Cisl e Fillea Cgil sono tornati ad “alzare” la voce contro l’azienda. A causa del “disinteresse dell’azienda alla soluzione delle problematiche produttive” dello stabilimento di Taranto e denunciando “lo stato di estremo disagio dei lavoratori”. Con il perdurare “di tale situazione – si legge nella nota congiunta – non si escludono azioni forti”. Addirittura i sindacati si chiedono qual sia l’impegno dell’azienda “sugli investimenti programmati a suo tempo in riferimento alla produzione ed ambientalizzazione dello stabilimento jonico?”, quando il progetto è stato messo nel cassetto da oltre un anno e mezzo.
Domani, nella sede di Confindustria, è previsto un incontro con la dirigenza della Cementir per la discussione dell’avvio della cassa integrazione ordinaria. “Nonostante le assicurazioni e gli impegni assunti – concludono i sindacati – la Cementir ad oggi non ha ancora reso noto il piano industriale, radicando così nei lavoratori il convincimento del disinteresse della proprietà per il futuro dello stabilimento tarantino. Ottanta famiglie della nostra provincia seguono così con preoccupazione questi eventi mentre di queste già 40 vivono in ristrettezze economiche con il sussidio della cassa integrazione”. Sarà. Ma poi non ve ne venite con manifestazioni e blocchi della città per la chiusura della Cementir. Si conosce tutto da oltre un anno e mezzo. Sull’argomento abbiamo scritto decine di articoli. Si poteva organizzare una protesta seria a difesa dei lavoratori per tempo. Ora, ancora una volta, è troppo tardi per tornare indietro.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 17.09.2014)