Ancora una volta è la Puglia, con le sue centrali a carbone e le sue industrie inquinanti tra cui l’Ilva (nel campo “eccellono” oltre al siderurgico tarantino, le centrali termoelettriche ex Edison all’interno dell’Ilva comprate dal gruppo Riva nel 2011 e l’impianto dell’Enel di Brindisi), a confermarsi regione con la più alta quota di emissioni di CO2: il 19,5% del totale nazionale. “Anche se – si legge nel rapporto – tra il 2012 ed il 2013 le emissioni sono calate del 16,3%, pur vedendo la cessazione d’attività di solo un impianto”. La emissioni di CO2 sono pari a 31.988 migliaia di tonnellate (il 19,5% del totale nazionale). Al secondo posto delle regioni più inquinanti c’è la “post-industriale” Lombardia (13,3%) e al terzo la Sicilia (11,8%), caratterizzata da una situazione industriale simile a quella pugliese. Il rapporto sottolinea che “tutte le prime 10 regioni hanno registrato una riduzione delle emissioni tra il 2012 ed il 2013 ad eccezione dell’Emilia Romagna, che aumentando del 58% il numero d’impianti coinvolti (prevalentemente del settore ceramico), vede le proprie emissioni aumentare dell’8,5%, fino a 10.269.000 CO2e ton”.
Nel 2013 gli impianti di produzione di energia appartenenti alla categoria “utility” e che fanno capo a circa 80 gruppi societari, sono stati responsabili per oltre il 55% delle emissioni coperte da ETS. Gli impianti di raffinazione (18), contribuiscono invece per il 12% delle emissioni complessive. Risulta così che il 67% delle emissioni sotto ETS in Italia viene gestito da meno di 100 gruppi societari. Il settore della calce e del cemento si colloca al terzo posto con il 10%. A seguire il settore della siderurgia e metallurgia (8%); il settore della carta con il 3%, ed i settori del vetro, dei laterizi e della ceramica (2%).
Le utility sono le industrie a registrare le maggiori diminuzioni (-11,65%) delle emissioni rispetto al 2012, seguite da altre imprese ad alto consumo energetico: calce e cemento (-10,94%) e siderurgia (10,88%), due settori in forte crisi. E’ bene precisare, così come avvenne lo scorso anno, che la riduzione delle emissioni non è certamente dovuta ad un qualche rinnovamento degli impianti o ad una loro riconversione ecologica, ma soprattutto al calo della domanda di energia ed alla concorrenza delle rinnovabili che negli ultimi anni hanno prodotto progressivo ridimensionamento dell’attività di quasi tutti gli impianti energetici a combustibili fossili, portando ad alcune chiusure di centrali. Lo si evince dallo stesso rapporto di Ecoway, che sottolinea come tra il 2012 e 2013 le raffinerie hanno tagliato le loro emissioni del 7% e l’industria del vetro del 4,02%. Calano anche le emissioni dell’industria della carta, ma solo del 2% nonostante l’uscita dallo schema ETS di 18 impianti (-12% degli impianti del settore). Le uniche industrie che registrano un aumento delle emissioni sono quello della ceramica e laterizi ed il gruppo generico degli impianti di combustione “altro”. Secondo EcoWay, l’aumento “in entrambi i casi è dovuto all’ingresso di nuovi impianti nel raggio d’azione dell’ETS. Si noti infatti che nel 2013 sono entrati nuovi settori in normativa ETS: ceramiche, laterizi, produttori di metalli non ferrosi”.
Il rapporto da un’occhiata anche a livello internazionale, dove continuano a diffondersi strumenti di emission trading (ma il governo conservatore dell’Australia nel 2014 ha abbandonato il suo) per la gestione delle politiche di controllo ai cambiamenti climatici. L’EU ETS è diventato il modello anche per Paesi extraeuropei come Kazakistan, Corea del Sud , California e Stati della costa nord-atlantica Usa, Quebec e Alberta in Canada, e la Cina ha avviato schemi ETS pilota nelle province più inquinate e il nel piano quinquennale 2016-2021 conterrà la lotta ai cambiamenti climatici e l’adozione di un ETS a livello nazionale.
G. Leone (TarantoOggi, 10.09.2014)
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