Ilva, tra banche e altiforni – Serve un prestito ponte per evitare tracollo
TARANTO – Come abbiamo avuto modo di riportare all’indomani della nomina di Piero Gnudi nel ruolo di neo commissario dell’Ilva, la speranza del Governo è che un uomo amico dell’esecutivo (attuale consigliere economico del ministro dello Sviluppo economico Guidi ed in passato presidente del collegio sindacale della sua azienda di famiglia), del mondo industriale (è stato presidente dell’Enel, ha lavorato per Eni ed Enichem, ed è stato anche membro del direttivo di Confindustria) e bancario italiano (sino al novembre 2011 ha fatto parte del Cda di Unicredit, una delle tre banche attualmente più esposte nei confronti dell’Ilva Spa), possa riuscire nell’immediato lì dove Bondi ha fallito: convincere gli istituti di credito a concedere all’azienda un prestito ponte di 7-800 milioni di euro, per garantire l’ordinaria amministrazione nei prossimi 2-3 mesi. Di più alle banche non si può chiedere, specie in assenza di una proprietà certa: concetto espresso dagli istituti di credito all’ex commissario Bondi che sperava di convincere quest’ultimi a finanziare il suo piano industriale, poi bocciato dal gruppo Riva e Federacciai.
Del resto, la situazione finanziaria dell’Ilva Spa è ad un passo dall’amministrazione straordinaria, eventualità che se da un lato favorirebbe nuovi possibili acquirenti, creerebbe non pochi problemi nella gestione degli oltre 16mila lavoratori diretti dell’azienda. Ecco perché, un eventuale prestito ponte, favorirebbe Gnudi nell’imbastire una trattativa con i gruppi interessati sia a mettere le mani sul siderurgico (AncelorMittal e Arvedi come abbiamo avuto modo di spiegare nei giorni scorsi) che a scongiurare una sua “drammatica” chiusura (Marcegaglia). Gnudi è stato infatti scelto anche per questo. A partire dal 1994 ha fatto parte del Cda dell’IRI, ricoprendovi (dal 1997 al 1999) l’incarico di sovrintendere alle privatizzazioni e (dal 1999 al 2000) la carica di presidente ed amministratore delegato; sempre presso l’IRI ha svolto (dal 2000 al 2002) le funzioni di presidente del comitato dei liquidatori. Nel ‘95 è stato consulente economico del ministro dell’industria del Governo Dini che curò la privatizzazione dell’Ilva.
Gnudi ha dunque recitato un ruolo importante nella privatizzazione dell’ex Italsider che il gruppo Riva acquistò nel 1995 e conosce molto bene l’argomento. Ed oggi, a 19 anni di distanza, potrebbe “rivendere” l’ex azienda di Stato ad un altro gruppo di privati: nel più classico dei corsi e ricorsi storici. Ciò detto, tutti sanno, in primis lo stesso Gnudi, che gli eventuali compratori studieranno un nuovo piano industriale che difficilmente terrà conto del piano ambientale approvato dal Consiglio dei ministri il mese scorso: per legge infatti, è il piano industriale a doversi modulare su quello ambientale e non il contrario. Quest’ultimo però, redatto da tre esperti del ministero dell’Ambiente lo scorso autunno, ha recepito le prescrizioni dell’AIA riesaminata dalla commissione IPPC sotto il dicastero Clini nell’ottobre 2012.
Evento che seguì al sequestro degli impianti dell’area a caldo da parte della Procura di Taranto nel luglio dello stesso anno. Non solo: perché il commissariamento dell’Ilva si rese necessario proprio a causa della mancata applicazione dell’AIA e non, o almeno non soltanto, a causa delle dimissioni dell’intero Cda della società Ilva, dell’ex ad Bondi e dell’ex direttore Ferrante dopo il sequestro per equivalente promosso dalla Procura a fine maggio 2013 (poi annullato dalla Cassazione nello scorso dicembre) come ancora oggi in molti sostengono per fare un po’ di sana disinformazione che dalle nostre parti non guasta mai.
Dunque è chiaro che i nuovi eventuali proprietari dell’Ilva, non avranno intenzione alcuna di accollarsi tutti gli interventi previsti dal piano ambientale (visto che quei lavori sarebbero dovuti essere effettuati nel corso degli ultimi decenni). Ed infatti, da ambienti finanziari trapela la notizia secondo cui proprio il piano ambientale sarebbe il nodo attorno al quale ruoterebbe l’eventuale entrata in Ilva del gruppo indiano ArcelorMittal.
Gli indiani, che come abbiamo più volte ribadito verrebbero a Taranto per evitare che altri colossi dell’acciaio si accaparrino il più grande siderurgico d’Europa e nello stesso tempo per togliere dal mercato europeo un concorrente e controllare il mercato italiano, non guarderebbero di buon occhio alla prevista e programmata fermata dell’AFO 5 (il più grande altoforno d’Europa che da solo garantisce il 40-45% della produzione del siderurgico tarantino). Secondo il piano ambientale la fermata dell’AFO 5 dovrà avvenire entro 6 mesi (dunque al massimo entro novembre prossimo): gli esperti avevano inizialmente programmato un calendario che prevedeva la fermata entro l’1 settembre 2014, la condensazione dei vapori loppa entro il 31 luglio 2015, la depolverazione campo di colata entro la stessa data (come previsto dalla prescrizione n. 16 dell’AIA).
Ora, invece, il riavvio dell’impianto dovrà essere autorizzato soltanto una volta ultimati i lavori e la verifica della loro efficacia. Questo perché AFO 5 ha bisogno di lavori strutturali di un certo rilievo: a valle dell’altoforno infatti dovranno essere sostituite anche due macchine di colata continua giunte ormai a fine vita, con un intervento manutentivo della durata prevista di almeno 7 mesi. In pratica anche con uno stop inferiore a questo lasso temporale non si avrebbe la possibilità di trasformare tutta la ghisa spillata, con un output finale comunque inferiore al normale regime produttivo. Del resto AFO 5 è quello che più interessa rispetto agli altri quattro.
AFO 3 è stato infatti avviato alla dismissione. AFO 1 è fermo e secondo l’ispezione di ISPRA ed ARPA dello scorso marzo sono stati avviati “i lavori di fondazione, con l’azienda che ha comunicato che l’impianto non verrà riattivato fino a quando non saranno ultimati gli interventi di adeguamento”. Altri 4 mesi di tempo servono invece per completare i lavori sull’AFO 2, fermato l’estate scorsa per “crisi di mercato” e poi riavviato dall’Ilva all’inizio del novembre scorso, senza però aver ultimato tutti i lavori previsti. Soltanto su AFO 4, secondo quanto riportato da ISRPA ed ARPA, sono stati completati i lavori.
In pratica, parliamo di un siderurgico più che “monco”. Per non parlare degli investimenti necessari alla sola manutenzione dello stabilimento, quasi del tutto abbandonata nel tempo, per cui già lo stesso Bondi aveva previsto investimenti per oltre un miliardo. Sarà anche per questo che il sub commissario Edo Ronchi, sentendo puzza di bruciato, ha deciso di uscire di scena. Lo stesso ha annunciato una conferenza stampa per giovedì prossimo, nella quale dirà le sue verità. Sia come sia, la situazione è ad un passo dal baratro. E probabilmente nemmeno il “buon” Gnudi, l’amico di tutti, potrà evitare il tracollo del più grande siderurgico d’Europa.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 14.06.2014)