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L’Ilva e il salvataggio impossibile

TARANTO – La situazione è inquietante. Il più grande siderurgico d’Europa è ad un passo dal fallimento. A Roma si svolgono vertici febbrili per tentare di scongiurare ciò che sarebbe stato evitabile se, dal 1995 ad oggi, questo Stato fosse stato amministrato da gente seria. Se il mondo della grande industria italiana fosse stato abitato da imprenditori onesti. Se la Regione Puglia, la Provincia ed il Comune di Taranto fossero stati governati da uomini e donne con a cuore il futuro di questo territorio e la salute dei suoi abitanti. Se avessimo avuto dei sindacati onesti verso il proprio mandato e verso i lavoratori. Se avessimo avuto una classe operaia unita. Se avessimo avuto una società civile altrettanto unita e meno con la puzza sotto al naso. Se avessimo avuto una città più innamorata di se stessa. Ma tant’è, con i se non si è mai fatta la storia. Né si è mai cambiata di una sola virgola la realtà. E adesso, quando il grande mostro d’acciaio è oramai sfinito, perduto, pronto ad alzare bandiera bianca, si cerca in tutti i modi di allungargli la vita. Attraverso modi e situazioni tutt’altro che chiare.

Parliamoci chiaramente, senza troppi giri di parole e ipocrisia. I grandi gruppi italiani operanti nel settore dell’acciaio, in questo caso Marcegaglia e Arvedi, hanno tutto l’interesse a ché l’Ilva sia salvata, visto che sono clienti diretti del siderurgico. Entrambi i gruppi però, non hanno la possibilità economica per acquisire la maggioranza delle azioni dell’Ilva Spa, né di finanziare con ingenti risorse l’aumento di capitale. Il gruppo Arvedi fa capo alla Finarvedi Spa, ha un fatturato annuo intorno ai 2 miliardi di euro e da lavoro a 2600 persone nelle quattro aziende del Nord Italia. Il gruppo Marcegaglia invece, raggiunge un fatturato annuo di quasi 4 miliardi di euro, ed opera con 7000 dipendenti impiegati in 43 stabilimenti sparsi per il mondo. Entrambi i gruppi operano nel campo della lavorazione e della trasformazione dell’acciaio speciale. Bastano questi semplici dati per capire che non hanno alcuna possibilità per acquisire Ilva e, nello stesso tempo, che dell’acciaio prodotto dal siderurgico tarantino ne hanno più che di bisogno.

Non è un caso allora, se è stata tirata dentro questa fantomatica cordata, l’Arcelor Mittal, il colosso indiano primo produttore al mondo di acciaio. Ora: è chiaro come il sole che Mittal non ha alcun bisogno della produzione dell’Ilva. L’unico vero interesse per una multinazionale del genere, sarebbe quello di eliminare dal mercato, un altro concorrente. Come? Dando disponibilità ad acquisire soltanto una minima parte del siderurgico tarantino. In modo tale da ridurne drasticamente la produzione, già si parla di un massimo di 5 milioni di tonnellate, investendo il minimo necessario sugli impianti (con ripercussioni inimmaginabili su miglia di lavoratori diretti e dell’indotto). Ciò garantirebbe, per un breve periodo, sia la sopravvivenza degli stabilimenti di Novi Ligure e Cornigliano, che parte del mercato interno italiano.

In questo modo tutti sopravvivrebbero, in un modo o in un altro. Almeno per un po’. Con l’Arcelor Mittal in grado di decidere il destino dell’acciaio italiano come e quanto più gli aggrada. Sino a farlo scomparire del tutto. Perché nel mondo dell’economia, da sempre, è questo quello che fa una grande multinazionale quando si mangia un pesce più piccolo. Senza dimenticare un dato fondamentale: che lo Stato italiano dovrà garantire all’eventuale cordata in questione (che tra l’altro mesi addietro fallì l’acquisizione dell’Ast di Terni), una sorta di scudo giudiziario. Perché è impensabile che i nuovi acquirenti si accollino anche i guai penali di qualcun altro.

In tutto ciò, la famiglia Riva resta a guardare. Del resto, hanno tutto l’interesse a ché nell’Ilva Spa entrino nuovi soci e nuovi capitali. E’ vero, dovranno battagliare in un processo infinito che inizierà il prossimo 19 giugno, ma per quello c’è una squadra di avvocati appositi pagati profumatamente. Il mondo dell’economia, da sempre, non si cura mai di queste cose. Noi, invece, restiamo della nostra idea di sempre: un certo tipo di industria è destinata all’estinzione. Sia qui che nel resto dell’Italia e del mondo. E’ solo una questione di tempo. Di necessità. Di interessi economici. Nient’altro. Come dite? Taranto e i tarantini in tutto questo cosa fanno? Noi lo scriviamo da anni e sinceramente siamo stanchi di ripeterlo. Del resto, i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma non temete: l’estate sta arrivando. Poi, al massimo, ne riparliamo a settembre. Ad maiora.

 Gianmario Leone (TarantoOggi, 31 maggio 2014)

 

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