Ilva, si tira fuori anche la Cassa Depositi e Prestiti
TARANTO – Dopo le banche, è il turno della Cassa Depositi e Prestiti. “Non abbiamo preso in considerazione l’ingresso di Fintecna nel capitale dell’Ilva”. Lo ha precisato ieri il presidente di CDP in persona, Franco Bassanini, aggiungendo inoltre che ora Fintecna è passata sotto il controllo al 100% della Cassa e risponde “alle stesse regole sulla sicurezza degli investimenti: cioè può intervenire solo dove ci siano le condizioni, solo in società in condizioni di stabilità”. Esattamente l’opposto dell’Ilva Spa.
Dunque sfuma, almeno per il momento, una delle tante ipotesi di salvataggio del siderurgico tarantino. Era l’autunno del 2012 quando su queste colonne (con un articolo intitolato “Riva, tra Brasile e Cassa Depositi” pubblicato il 21 novembre 2012) avanzammo l’ipotesi di un possibile intervento dello Stato, tramite la Cassa Depositi e Prestiti, per finanziare i lavori di risanamento degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva previsti dalla nuova “AIA”, rilasciata nell’ottobre dello stesso anno dall’ex ministro dell’Ambiente di allora Corrado Clini. Un’ipotesi che su queste colonne abbiamo sempre presentato come pericolosissima, oltre che inattuabile, visto che si parla dei soldi dei cittadini italiani (oltre 230 miliardi di euro sono stati depositati da 24 milioni di cittadini italiani su un libretto di risparmio oppure investiti nei Buoni fruttiferi postali) e che porta dritti all’idea della nazionalizzazione del siderurgico, caldeggiata ancora oggi dai sindacati.
Tra l’altro, in molti avranno senz’altro dimenticato (o forse non l’hanno mai saputo) che l’intervento diretto della CDP ha rischiato di essere inserito nel testo della legge 89 del 4 agosto scorso, quella con la quale si stabilì il commissariamento dell’Ilva. Parliamo di un emendamento depositato nel corso della conversione in legge del decreto legge del 4 giugno, poi “stranamente” svanito nel nulla. Si trattava di un articolo aggiuntivo – il 2 bis – con il quale si disponeva che il commissario potesse richiedere al Fondo strategico italiano Spa, istituito presso la Cassa Depositi e Prestiti, “in caso di comprovata impossibilità di disporre delle risorse finanziarie della società proprietaria dello stabilimento di interesse strategico nazionale le somme necessarie all’esecuzione delle disposizioni previste dall’AIA. In cambio, come corrispettivo di queste somme sono conferite al Fondo quote azionarie della società proprietaria dello stabilimento che possono eventualmente essere riacquistate dalla società”.
Del resto, anche se in forma diversa, è la stessa operazione che è stata varata con l’ultima legge sull’Ilva, la numero 6 del 6 febbraio 2014: il famoso aumento di capitale (l’unica vera strada per un eventuale, quanto improbabile, salvataggio dell’Ilva Spa) attraverso anche e soprattutto la cessione di quote azionarie della società ad investitori terzi interessati a subentrare alla gestione del siderurgico. Dunque, anche la CDP si sfila dal ginepraio in cui si è infilata la vicenda dell’Ilva. Il ragionamento fatto è lo stesso portato avanti da mesi dalle banche esposte finanziariamente per oltre un miliardo di euro nei confronti della società (Unicredit, Banca Intesa e Banco Popolare), che hanno dichiarato in tempi non sospetti di poter eventualmente finanziare il piano industriale 2014-2020, soltanto dopo aver ricevuto precise garanzie sul futuro della proprietà e sull’applicazione del piano ambientale. Investitori italiani ed esteri, a parte le solite boutade che ogni tanto arrivano dal mondo finanziario italiano, non ce ne sono. E non ce ne saranno.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 28 maggio 2014)