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L’Ilva e Taranto in un limbo

TARANTO – L’impressione è che la storia dell’Ilva sotto la gestione commissariale di Enrico Bondi, stia lentamente assumendo i contorni e le sembianze delle vicende che hanno caratterizzato la storia di questa città negli ultimi sessant’anni. Una serie infinita di rinvii, di promesse non mantenute, di occasioni perse, di speranze disattese e di utopie sull’attesa, puntualmente vana, di un salvatore che giunga da chissà dove a risolvere problemi accumulatisi nel tempo, a causa di una colpa oramai storicamente collettiva. E’ passato quasi un anno dall’avvio del commissariamento, ma nulla è cambiato. L’Ilva continua a produrre, poco e male, gli impianti (quelli in funzione) continuano ad inquinare, visto che sono gli stessi della gestione Riva, anche se meno rispetto al passato unicamente per una questione “numerica”.

Mentre le risorse finanziarie per effettuare i lavori di risanamento previsti dall’AIA 2011, poi riesaminata da quella dell’ottobre 2012 ed infine modificata e rimodulata nell’ottobre scorso dalla proposta del piano ambientale di quattro esperti nominati dal ministero dell’Ambiente, continuano a non esserci. Così come continuano a non esserci le risorse per il piano industriale. Né ci sono quelle per l’aumento di capitale che il commissario Bondi è chiamato ad attuare per legge dallo scorso dicembre. E quindi che si fa? Come nella migliore tradizione di questa città, si attende. Del resto, al comma 11-quinques della legge approvata lo scorso 6 febbraio, si legge che per “reperire le risorse necessarie per l’attuazione del piano industriale in tempi compatibili con le esigenze dell’impresa soggetta a commissariamento”, il limite individuato è “non oltre l’anno 2014”.

E così, nel mentre si attende un segnale proveniente dall’universo della siderurgia europea e mondiale (che ha invece tutto l’interesse affinché l’Italia resti al palo nel campo della produzione dell’acciaio), i costi per mantenere in vita l’Ilva in fatto di manutenzione ordinaria e straordinaria, continuano a lievitare. Nel giro di un anno siamo passati dall’1,8 miliardi del giugno scorso, ai 4 miliardi odierni. All’interno dei quali una somma consistente, 1,5 miliardi, dovrebbe venire dal famoso aumento di capitale, sul quale nessuno ha la più pallida idea di come sarà effettuato e soprattutto da chi. Tacciono i soci di minoranza e, soprattutto, tacciono i Riva. I quali sono di fatto estromessi dalla legge del commissariamento (la n. 89 del 4 agosto 2013) nella gestione diretta dell’azienda, ma restandone di fatto i proprietari detenendo ancora la maggioranza delle azioni (62,61%), sempre per legge (la n. 6 del 6 febbraio scorso) hanno il diritto di conoscere i dettagli del piano industriale, valutarne la consistenza e la sua efficacia, ed eventualmente decidere se e come contribuire alla sua realizzazione. Il che vuol dire che il ruolo di Bondi è tutt’altro che dominante e determinante. 

Ed infine tacciono le tre banche coinvolte nella querelle del siderurgico tarantino: Unicredit, Banca Intesa San Paolo e Banco Popolare. Che come abbiamo riportato decine di volte su queste colonne, vantano crediti nei confronti dell’Ilva Spa per quasi 1,5 miliardi. Istituti di credito che hanno già ribadito in più occasioni come non abbiano intenzione alcuna di finanziare un solo euro previsto dal piano industriale. Redatto dalla società da McKinsey & Company su mandato di Bondi, ed ora sotto la lente d’ingrandimento della società di consulenza Roland Berger, a cui le banche hanno chiesto di verificarne la sostenibilità finanziaria.

In tutta questa incertezza, vi sono migliaia di operai che ogni giorno varcano i cancelli del più grande siderurgico d’Europa, senza pare curarsi troppo del destino che li attende (tranne rare eccezioni). Del resto, finché ogni 10 del mese lo stipendio viene accreditato sui singoli conti correnti bancari, la paura e l’angoscia possono essere tranquillamente rimandate a quando arriverà il momento di protestare e manifestare per un lavoro che verrà meno dall’oggi al domani. Intanto, all’esterno della grande fabbrica, c’è una città che continua a vivere la sua storia paradossale. A fare da contraltare al solito fatalismo ed alla solita superficialità condita da rassegnazione e menefreghismo, ci sono tanti piccoli gruppi satelliti che continuano le loro singole battaglie quotidiane, tutte in nome di una sorta di “rivoluzione civile quotidiana” che però sino ad oggi non ha dato risultati tangibili e pratici. Tutti chiusi nel proprio recinto ad annaffiare il proprio orticello, guardando in cagnesco il vicino: un cliché stomachevole a cui assistiamo oramai impotenti da anni. E così, nulla cambia per davvero.

Ci sono soltanto mille polemiche quotidiane e mille finti buoni propositi giornalieri, che si perdono nell’aria come i vapori e i fumi velenosi della grande industria quando arriva la sera. A farne le spese, come sempre, sono quei gruppi di giovani cittadini che nel loro piccolo e con i loro pochi mezzi, provano a cambiare la realtà anche solo di un millimetro. Oltre alle tante associazioni che da anni si impegnano sul territorio nel campo del sociale e della solidarietà. Ad avvantaggiarsene, ancora una volta, i tanti che conoscendo sin troppo bene questa città, hanno per tempo cambiato pelle. Per cui oggi è quasi impossibile avere un’idea reale ed oggettiva della storia di questi ultimi 20 anni. E’ come se tutto fosse avvolto da un grande velo di Maya che ci impedisce di guardare oltre e di cambiare davvero la realtà. Ed oramai l’impressione è che quando questo velo si squarcerà, non si potrà più tornare indietro. Ad maiora.

Gianmario Leone (TarantoOggi, 23.04.2014)

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