Nella missiva, su tutte, viene espressa la richiesta di una compatibilità che, in maniera trasversale, unisca gli obiettivi climatici, la crescita industriale e l’occupazione, ristabilendo tra queste componenti il giusto equilibrio: in pratica l’utopia della tanto decantata (e per noi da sempre irrealizzabile) eco-compatibilità.
“Noi tutti condividiamo l’ambizione di trovare una risposta efficace al cambiamento climatico” si legge. “Tuttavia, le speranze per un rapido raggiungimento di un accordo mondiale – sebbene sia stato imbastito con volontà dichiarata da tutti i soggetti – e la probabilità che tale accordo venga raggiunto nel 2015 è piuttosto remota”.
Alla luce di tale considerazione, di cui però non viene spiegata la motivazione, i 64 scriventi hanno stilato una lista di necessità urgenti: per loro. La prima richiesta è che “l’Europa non deve più imporre a sé stessa obiettivi unilaterali di riduzione della CO2 che nessun altro segue”. In questo contesto, viene aggiunto che “nel 2008, le misure che sono state adottate per tutelare la competitività dell’industria dell’UE erano limitate nel tempo e soggette ad un fattore di riduzione. Tale normativa deve essere sostituita”.
In pratica, se altrove inquinano perché non hanno alcuna legiferazione in tema ambientale o hanno limiti più elevati, ciò deve essere concesso anche in Europa. Infatti viene sottolineato che “la disciplina ambientale ed energetica deve consentire alle industrie energivore degli stati membri di essere esenti dal pagamento nazionale di decarbonizzazione, in quanto i concorrenti sui mercati globali non si trovano a dover sostenere tali costi”. Inoltre, “l’EU ETS deve essere modificato per consentire il 100% di quote a titolo gratuito per gli impianti più efficienti, senza fattore di riduzione sia entro il 2020 che oltre, e sulla base di parametri realistici”. In pratica, vogliono dettarla loro l’agenda ambientale all’Unione Europea.
E come possono farlo se non attraverso il ricorso all’oramai tristemente famoso ricatto occupazionale ed al fatto che per adeguare i loro impianti spenderebbero troppi soldi? Il target del 43% di taglio delle emissioni di Co2 entro il 2030 significa infatti per gli industriali siderurgici “una riduzione del 60% rispetto al 1990, che è tecnicamente ed economicamente impossibile datele attuali tecnologie”, e creerebbe una situazione di svantaggio competitivo sul piano globale. Nella lettera si ricorda inoltre come il settore dal 2008 abbia perso il 15% della forza lavoro.
“Senza un riequilibrio delle politiche industriali, del clima ed energetiche, che forniscono l1,4% del PIL Ue e 350 mila posti di lavoro diretti e 1,5 milioni di posti indiretti, il settore declinerà ulteriormente”. Tra i firmatari, ovviamente, non potevano mancare Cesare Riva (Riva Forni Elettrici) ed Enrico Bondi (Ilva). Per l’Italia presenti anche Roberto Marzorati (Cogne Acciai Speciali), Giovanni Arvedi (Acciaieria Arvedi), Giuseppe Pasini (Feralbi), Luca Zanotti (TenarisDalmine). E se lo scrivono loro…
Gianmario Leone (TarantoOggi, 13.03.2014)
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