TARANTO – Mentre a Palazzo Madama era in corso la votazione per convertire in legge il decreto blindato dalla Camera sulla Terra dei Fuochi e l’Ilva, ad una decina di chilometri di distanza, a piazzale Benito Juarez dove si trova la sede romana di Federmeccanica, il coordinamento nazionale di Fim, Fiom e Uilm incontrava la direzione aziendale Ilva.
Una riunione convocata per fare il punto su un’azienda che al momento appare allo sbando generale. E il cui futuro è sempre più nebuloso. Del resto, presentarsi ad un incontro di tale importanza e dichiarare di non essere ancora in grado di fornire i dati finanziari del 2013, è il segno evidente di una situazione al limite del ridicolo. Confermata dalla comunicazione data dall’azienda, l’ennesima di questo tenore, che il piano industriale arriverà a valle di quello ambientale, che sarà varato entro il 28 febbraio tramite decreto del ministero dell’Ambiente.
Ma come scriviamo oramai da anni, oggi più che mai il problema dei problemi resta sempre lo stesso: la mancanza delle risorse finanziarie (ieri voluta dal gruppo Riva, oggi tristemente oggettiva) per varare entrambi i piani. Che sono tra loro per forza di cose strettamente dipendenti l’uno dall’altro. Del resto, non è di certo un caso se per finanziare il piano ambientale il governo abbia dovuto scrivere ed approvare un decreto apposito, da ieri legge dello Stato.
Che autorizza il commissario straordinario dell’Ilva Enrico Bondi a dare il là ad un aumento di capitale, la cui azione è a tutt’oggi soltanto una bella idea e nulla più. Visto che ad oggi non è dato sapere chi dovrà immettere questi nuovi capitali nelle casse dell’Ilva Spa. Certo, la legge prevede che Bondi vada a bussare alla porta dei Riva: ma le probabilità di ricevere in cambio una sonora pernacchia sono alquanto elevate. Non è un caso se è stato previsto che nel caso di impresa esercitata in forma societaria, il commissario è autorizzato ad effettuare “a pagamento nella misura necessaria ai fini del risanamento ambientale”, attraverso la possibilità di offrire le azioni “in opzione ai soci in proporzione al numero delle azioni possedute”, e con “le azioni di nuova emissione che potranno essere liberate esclusivamente mediante conferimenti in denaro”.
E’, infatti, previsto che il commissario Enrico Bondi avrà il potere di aumentare il capitale sociale dell’Ilva Spa chiedendo alla proprietà (il gruppo Riva) di partecipare. In caso di rifiuto pressoché scontato, il commissario potrebbe limitare i diritti di opzione e di prelazione, ricorrere a investitori terzi per l’aumento del capitale sociale ma anche chiedere all’autorità giudiziaria lo svincolo delle somme sequestrate alla proprietà anche per reati diversi da quelli ambientali (quelli derivanti dal reato di frode fiscale contestato al gruppo dalla Procura di Milano che ha già provveduto al sequestro di 1,2 miliardi di euro ed ha scovato nel paradiso fiscale di Jersey altri 700 milioni di euro). Soldi, questi, da destinare nelle intenzioni del governo alla bonifica dello stabilimento di Taranto. Abbiamo più volte ripetuto su queste colonne come tutto questo non sia altro che il frutto di un’idea, l’ennesima, del tutto irrealizzabile. A cominciare proprio dalle risorse sequestrate che non potranno essere utilizzabili sino alla conclusione del processo sull’inchiesta milanese, peraltro nemmeno iniziato.
Per non parlare delle risorse (almeno un altro miliardo di euro) che servirebbero per una oramai non più rinviabile manutenzione degli impianti dell’area a caldo che sono sempre più vetusti. In altre parole, si proverà a convincere i soci minori e/o altri gruppi imprenditoriali interessati ad acquisire azioni dell’Ilva Spa. Ma chi vorrà entrare in possesso di una fabbrica dotata di impianti vecchissimi, e che tra tre anni tornerà nella proprietà del gruppo Riva al termine del periodo di commissariamento (stando almeno alle intenzioni del governo)?
Quale convenienza ci sarebbe nel realizzare lavori mastodontici, che durerebbero anni, in un mercato dove oramai la concorrenza estera la fa da padrona? Con quali risultati? Con quali garanzie? Non è dato sapere. E a proposito di garanzie, non è un caso che le banche abbiano fatto capire a Bondi (sia nei due incontri di gennaio che negli ultimi giorni) che finanzieranno il piano industriale soltanto una volta che sarà certa l’attuazione del piano ambientale. Perché senza i lavori previsti dall’AIA, l’Ilva è destinata a fermarsi nel breve volgere di qualche mese. E le banche non finanzieranno mai un’azienda senza futuro. Del resto, gli istituti di credito sono gli stessi ancora esposti finanziariamente nei confronti dell’Ilva Spa (Intesa, Banco Popolare e Unicredit). Dunque rischiano seriamente di non veder tornare indietro nemmeno i capitali prestati al colosso siderurgico.
Inoltre, cosa tutt’altro che di poco conto, la mancata attuazione dei lavori sugli impianti dell’area a caldo, sommata alla totale assenza dei lavori di manutenzione, ha prodotto negli anni un dato oramai inconfutabile (e denunciato con forza da tempo da operai ed RSU): la scarsa qualità dell’acciaio griffato Ilva.
Come abbiamo riportato nei giorni scorsi infatti, la fermata dei tubifici 1 e 2 per le prossime settimane, ha una spiegazione molto semplice ma allo stesso tempo drammatica, specchio reale di ciò che è oggi il siderurgico più grande d’Europa. Perché i tubifici si sono fermati a causa dello stop del treno lamiere. Il quale attende di ricevere una colata di qualità dall’acciaieria (l’ultima è stata infatti rimandata indietro pare a causa di alcune cricche minuscole (difetti) sui tubi dovuta all’acciaieria) per soddisfare in particolare una commessa della Snam, che ha sospeso l’ordine effettuato in quanto non soddisfatta appunto della qualità dell’acciaio prodotta dall’Ilva (si parla di una commessa quinquennale che rischia di saltare). Producendo acciaio di scarsa qualità, si va a far benedire la teoria di una fabbrica a “flusso teso” come la sogna il commissario Bondi: ovvero produrre acciaio di qualità soltanto per soddisfare le commesse (eliminando del tutto lo stoccaggio di tonnellate di materiale come avveniva nell’era del gruppo Riva).
Ed a fronte di tutto ciò, lascia il tempo che trova la teoria della concorrenza della Germania avanzata ieri dall’azienda nell’incontro con i sindacati: perché sarà pur vero che i tedeschi fanno pagare 1 coils (rotolo d’acciaio) meno di una bramma (barra di acciaio semilavorato), ma è altrettanto vero che se non produci prodotti di qualità il mercato ti scarta automaticamente. Ciò detto, resta sempre in ballo la questione del lavoro. Nei prossimi giorni azienda, sindacati metalmeccanici ed RSU del siderurgico tarantino torneranno a vedersi per trovare un accordo sui numeri dei lavoratori da collocare in solidarietà, sul quale pesa anche la mancata copertura del 10% dell’integrazione del salario che Ilva ha già dichiarato di non potersi accollare.
Ed essendo legati a doppio filo, tremano anche i lavoratori e i sindacati di Genova. Ieri l’azienda si è impegnata a rilanciare la fabbrica, attraverso il rilancio della banda stagnata e l’implementazione di una nuova linea di taglio (“slitter”), al fine di scongiurare gli eventuali esuberi del personale. Ma la trattativa è tutt’altro che semplice: sono tra i 300 e i 500 i lavoratori che a settembre rischiano di restare senza lavoro. Peggio ancora se la passano altrove: nella riunione di ieri l’azienda ha infatti comunicato la decisione di chiudere due stabilimenti: quello di Torino (che conta 22 dipendenti) nei primi mesi del 2015, e di quello in provincia di Frosinone, a Patrica (67 dipendenti), mediante l’avvio della procedura di mobilità da giugno 2014. Se qualcuno ancora non se ne fosse accorto, stiamo assistendo al lento declino e al collasso del più grande siderurgico d’Europa, della più grande fabbrica italiana per numero di occupati, di un intero sistema di produzione, oltre che di un intero sistema economico. Ammalatosi anch’egli di un male incurabile. E definitivo.
Gianmario Leone (TarantoOggi, 06.02.2014)
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